Otto grandi film del 2014 che non avete visto

Otto grandi film del 2014 che non avete visto

 Tempo di classifiche. E tra le più gettonate ci sono senz’altro le liste dei migliori film dell’anno. Alcuni hanno già fatto parlare molto di sé, come Boyhood, Interstellar o Gone girl, altri come Mommy e Pride stanno balzando agli onori delle cronache proprio in questi giorni. Altri ancora, come Birdman e Leviathan, arriveranno nelle sale italiane solo nei prossimi mesi. Senza alcuna ambizione di decretare il film migliore dell’anno – e chi li ha visti tutti? – ho deciso di spulciare le liste dei film più sottovalutati, che hanno ottenuto poco clamore ma ottime critiche. Questo è il risultato: sono i film che ho guardato durante le vacanze di Natale e che mi sono piaciuti. Nonostante gli incassi per nulla stellari, hanno tutti un’altissima “percentuale di freschezza” su Rotten Tomatoes e se ve li siete fatti scappare finora, forse meritano una seconda chance.

Locke

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Per molti il film più interessante dell’anno, eppure nel nostro paese – come negli States – ha ricevuto un’accoglienza di pubblico tiepida. Locke è un film iper-minimale scritto e diretto da Steven Knight – già sceneggiatore per Stephen Frears (Piccoli affari sporchi) e David Cronenberg (La promessa dell’assassino) e regista di Redemption (2013) – che fa della buona sceneggiatura il suo massimo punto di forza. Si tratta di una piccola tragedia quotidiana giocata senza slanci e colpi di scena, nel più completo rispetto delle unità aristoteliche: l’unità di luogo – l’abitacolo di una Bmw –, l’unità di tempo – gli 85 minuti del film, ovvero il viaggio in macchina del protagonista documentato in tempo reale – e, di conseguenza, l’unità d’azione.

Un uomo, una macchina che viaggia nella notte, un cellulare in vivavoce: il capocantiere Ivan Locke esce dal lavoro e anziché andare dritto a casa come ogni sera, verso la sua rassicurante quotidianità, prende una decisione che manderà in frantumi tutto ciò che ha costruito: mette la freccia, svolta a destra e inizia a guidare verso Londra, dove lo aspetta un dovere morale da compiere. Tutto il resto viene mano a mano svelato attraverso le telefonate che fa e riceve e che approfondiscono la trama senza risultare mai pretestuose. Il risultato è un microdramma umano che ha il pregio di rendere il calcestruzzo maledettamente interessante e di risultare avvincente e ricco di tensione pur raccontando in tempo reale la vicenda banale di un uomo banale. Tutto ciò è possibile anche grazie all’ottima interpretazione di Tom Hardy – protagonista anche di The Drop, altro film ben quotato che uscirà in Italia in primavera – in grado di sostenere da solo la macchina da presa per 85 minuti, giocando su una recitazione trattenuta, aiutato da un piccolo stuolo di comprimari, ridotti a sola voce.

The Babadook

Secondo Vox è uno dei film più sottovalutati del 2014: un horror psicologico della regista australiana Jennifer Kent, allieva di Lars von Trier, che è un piccolo gioiello del cinema del terrore. William Friedkin (L’Esorcista) l’ha definito il film più terrificante mai visto. Ma è anche un dramma familiare di grande sensibilità.

Nel cinema ci sono modi più o meno facili e più o meno intelligenti di fare leva sulle paure umane. Questo film si muove senza scorciatoie, scegliendo di rinunciare al colpo di scena in favore di una costante inquietudine, senza paura di risultare disturbante e di far emergere un’emotività autentica, a tratti scomoda. Il mostro – una variazione sul tema dell’uomo nero – ha un magnifico aspetto da vampiro espressionista dell’epoca del muto – tra Nosferatu e Caligari –, perché non deve rappresentare un mostro credibile, ma una sorta di creatura iconica che è solamente la facciata di ciò che davvero fa paura: la difficilissima elaborazione di un lutto e l’esplorazione del rapporto madre-figlio – interpretati magistralmente da Essie Davis e Noah Wiseman – nelle sue pieghe più controverse.

Blue Ruin

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MTV l’ha definito «l’esempio perfetto di ciò che crowdfunding può compiere». Si tratta di un piccolo revenge movie americano –  che inscena una vendetta un po’ maldestra, in realtà – diretto da Jeremy Saulnier e finanziato attraverso una campagna Kickstarter, per poi approdare al Festival di Cannes.

Dwight è un senzatetto che intraprende un nostos – un ritorno al paese d’origine – per compiere la sua vendetta: uccidere l’uomo che ha ammazzato i suoi genitori e che è appena stato scarcerato. Così facendo innescherà una piccola faida familiare presto destinata a sfuggirgli di mano in un efficace climax di umana cattiveria. La storia è raccontata senza preamboli, nel suo farsi, anche quando vira verso toni grotteschi, senza abbandonare una lieve mestizia di fondo, dovuta per lo più alla discrasia tra i propositi di vendetta e la fondamentale inadeguatezza del protagonista, killer improvvisato e maldestro (per quanto motivato), che solo la vendetta riesce a scrollare dall’apatia. Fa da sfondo l’America di provincia, con i tristi fast food, le case piene di armi come fossero caserme e i vecchi amici del liceo pronti a prestare un po’ di pallottole e una consulenza sull’uso delle armi da fuoco.

Seguono a questo punto in rapida successione tre film che non c’entrano nulla tra loro, se non per il fatto di affrontare in maniera insolita l’ormai abusato tema vampiresco.

Only lovers left alive

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Only lovers left alive (“Solo gli amanti sopravvivono”) è il più noto del mazzo. Jim Jarmusch (Dead man, Down by law, Coffee and cigarettes) riprende l’iconografia del vampiro dandy cercando di misurarsi con la vita quotidiana degli immortali e, una volta tanto, tentando di restituirne “l’anzianità” intellettuale ed emotiva. Ci riesce a tratti: i riferimenti culturali che dovrebbero testimoniare il loro sapere secolare sono più che altro midcult e il protagonista maschile, Adam (Tom Hiddleston), è afflitto da uno spleen un po’ troppo emo (o tardo-romantico, a seconda delle epoche). Meno scontato il personaggio di Eve, interpretato dalla fantastica Tilda Swinton (vista sempre quest’anno anche in Gran Budapest Hotel e Snowpiercer): una perfetta immortale che si muove con la flemma di chi ha tutta la vita davanti e con la levità di chi ha abbandonato da tempo le piccole meschinità quotidiane.

Afflicted

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Film indipendente canadese, girato e interpreto da Derek Lee e Clif Prowse, utilizza l’espediente del finto documentario – non a caso il titolo italiano, assai didascalico, è Videoblog di un vampiro – per descrivere un aspetto che di solito è considerato marginale nei vampire movies: il processo di vampirizzazione che segue il “contagio”. Oggetto del racconto è tutto ciò che accade al corpo durante la trasformazione: l’intolleranza nei confronti del cibo, i superpoteri che vengono sviluppati, il bisogno sempre più impellente e spasmodico di nutrirsi – con tutte le remore morali che ne conseguono.

Nato in origine come web serie, il film è stato girato tra Barcellona, Parigi, Italia (Liguria) e Vancouver con un budget di 318 mila dollari, recuperato tra amici e parenti. È il primo lungometraggio di Lee e Prowse, già coautori di alcuni corti, e da buon film indipendente vuole descrivere un vampirismo depurato dalla rappresentazione mainstream «molto stilizzata, cinematografica, spesso melodrammatica e romanticizzata». E con qualche incertezza fisiologica e senza pretese mirabolanti, riesce nell’intento.

A girl walks home alone at night

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Chiude la carrellata vampiresca uno stranissimo film d’atmosfera iraniano, per la precisione «il primo vampire western iraniano», nonché primo lungometraggio della regista Ana Lily Amirpour, che dichiara di essersi ispirata «un po’ a Lynch, un po’ a Tarantino e un po’ a Robert Rodriguez». Con un occhio di riguardo nei confronti dei vampiri di Anne Rice, ovviamente. «Un vampiro è molte cose – spiega Amirpour – un serial killer, un’immagine romantica, una figura storica, un tossicodipendente – è un po’ tutte queste cose in uno».

La sinossi è presto detta: in una città fantasma iraniana dall’eloquente nome di Bad City, un posto «intriso di morte e di solitudine», i cittadini ignari sono inseguiti da un vampiro solitario, un’anti-eroina spietata e romantica, nonché, verosimilmente, il primo vampiro della storia del cinema a indossare un chador e cavalcare uno skateboard.

Under the skin

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Secondo il Guardian è il film più bello del 2014 ed è forse il più conosciuto di questa piccola rassegna. È diretto dal regista britannico Jonathan Glazer, noto per Birth-Io sono Sean e per essere un talentuoso regista di videoclip (tra gli altri Karmakoma, Karma Police e Into My Arms). Il film è basato sul romanzo Sotto la pelle di Michel Faber, e la pelle che l’aliena protagonista indossa per vagare in incognito per la Scozia, rapendo ignari autostoppisti, è quella di Scarlett Johansson. Tra lunghi viaggi in macchina e qualche sequenza semi-onirica, il film funziona: Glazer riesce a restituire lo sguardo straniato della protagonista – importante quando si parla di creature di “un altro mondo” – e la sua progressiva scoperta del corpo, con la crescente volontà di fare esperienze “umane” come il cibo e il sesso. Funziona soprattutto il ribaltamento finale della dialettica vittima-carnefice, che trasforma l’aliena da predatrice a preda proprio in virtù di quel corpo seduttivo che utilizzava per attrarre le sue vittime e che diventa, in ultima istanza, la causa della sua distruzione.

Calvary

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Calvario è una piccola vicenda cristologica sulle coste irlandesi. Il film è diretto da John Michael McDonagh, che riprende, dopo The Guard (2011), il sodalizio artistico con Brendan Gleeson, qui nelle vesti di un comune prete di provincia che una mattina, durante la confessione, riceve un annuncio sconcertante: un suo compaesano gli confessa che ha intenzione di ucciderlo per vendicare gli abusi subiti da bambino da parte di un altro sacerdote. Lo spunto, insieme drammatico e surreale, dà vita a un racconto che si snoda lungo il tempo che intercorre tra la confessione e la data fissata per l’esecuzione (la domenica successiva) e che ci accompagna alla scoperta della comunità e di tutti i suoi piccoli abomini domestici. Tra i bizzarri concittadini, anche un medico interpretato da Aidan Gillen (Petyr “Littlefinger” Baelish), che è soltanto una delle molte figure meschine che circondano il protagonista, tanto che lo spettatore si chiederà fino alla fine chi sia il misterioso giustiziere, mentre il protagonista, che ne ha perfettamente riconosciuto la voce, non sembra volerci dare indizi in proposito. Una vicenda di martirio contemporaneo, tra l’apologo e la commedia nera.