Un anno fa il rapporto del Centro Einaudi sull’economia italiana era stato chiaro: i “fili d’erba” della ripresa stavano spuntando, ma una gelata avrebbe potuto distruggerli. Molto sarebbe dipeso dalla situazione internazionale, spiegava a Linkiesta il curatore del rapporto, l‘economista ed editorialista della Stampa Mario Deaglio. Inoltre, senza investimenti la ripresa sarebbe stata solo un rimbalzo statistico, aggiungeva Beppe Russo, economista tra gli altri autori del rapporto. Purtroppo così è effettivamente stato: il 2014 ha visto un peggioramento notevole delle condizioni internazionali e la continuazione della fuga degli investimenti. La domanda interna, che dava segni di risveglio e a cui avrebbe dovuto fornire una spinta il bonus da 80 euro del governo Renzi, non si è ripresa, probabilmente proprio per la sbagliata distribuzione del bonus. Da queste tre constatazioni parte il rapporto del Centro Einaudi del 2014 (realizzato da Ubi Banca ed edito da Guerini e Associati), intitolato significativamente “Un disperato bisogno di crescere”. Le ricette per uscire dalla crisi sono anche impreviste: da una parte la necessità di spingere sul project financing e sulle misure di incentivi ai privati nei settori immobiliare e dei mobili. Dall’altra il consiglio di rilanciare sul Servizio Civile Nazionale. Uno strumento che potrebbe anche arrestare quell’esodo di 100mila persone all’anno (un quinto degli studenti che cominciano la scuola) e che comincia a produrre una desertificazione delle competenze necessarie per impostare una ripresa.
«Nella seconda metà del 2013 la ripresa era davvero nell’aria», ribadisce il rapporto, che difende le ragioni dell’ottimismo di un anno fa. «L’economia – si legge – era reduce da un’incisiva azione di riequilibrio della finanza pubblica, e si pensava che questa stabilizzazione avrebbe prodotto due “dividendi”»: i circa 4 miliardi di risparmi ottenuti dalla discesa dello spread e l’apprezzamento dei risparmi degli italiani, per il buon andamento dei mercati sia obbligazionari sia azionari. «Anche la fiducia nei confronti della politica era in recupero», soprattutto, spiegano Deaglio e gli altri autori, dopo le riforme promesse dal governo Renzi nei primi mesi di insediamento, quando furono impiegati dieci miliardi per il bonus di 80 euro e fu disposto il taglio del 10% dell’Irap. «Tutto ciò – si legge – si inseriva in un clima di ottimismo moderato ma crescente; verso la fine del 2013 l’economia mondiale sembrava essersi scrollata di dosso alcuni tra i principali segnali di crisi». E negli stress test per le banche italiane della fine del 2013 «il sistema italiano si era rivelato (per via della leva inferiore) più solido sia di quello tedesco sia di quello francese». Tutto ciò «poteva far supporre una crescita dell’offerta di credito, che si era contratta negli anni passati, soprattutto se fosse stata accompagnata da misure di facilitazione quantitativa da parte della Bce, come quelle poi introdotte dal giugno del 2014». Insomma, «embrava l’alba. Si trattò invece, secondo l’espressione anglosassone, di un’“alba bugiarda”».
Che cosa non ha funzionato? «Dell’elenco dei “fili d’erba” delle speranze di ripresa – secondo il XIX Rapporto sull’economia globale e l’Italia – in realtà se ne è avvizzito solo uno, anche se molto importante, e precisamente quello delle esportazioni. Gli altri resistono tuttora». A essersi inceppata è l’economia mondiale, e in particolare quella europea, per motivi in larga misura per motivi non immediatamente ascrivibili a fattori economici bensì al deterioramento della situazione politico-strategica mondiale. L’elenco delle cose che non funzionano è lungo e comincia – forse a sorpresa – con gli Stati Uniti. «L’economia americana, che pure ha ritrovato parte del vigore della sua domanda interna, continua a non entusiasmare i lettori attenti al suo ciclo economico, per lo scarso reinvestimento dei profitti nell’economia reale, per l’altrettanto scarsa distribuzione dei benefici della ripresa e per il conseguente andamento incerto dei consumi delle famiglie».
Ci sono poi i segnali al sotto delle aspettative di Cina e Giappone e il nuovo rallentamento dell’Europa, incluso il suo cuore franco-tedesco. Il resto lo fanno le turbolenze del resto del mondo, con in testa l’Ucraina, il “Califfato”, ma anche il rischio dell’Ebola.
A questi fattori esterni si aggiungono, però, quelli interni che bloccano l’export: un ritardo tecnologico e una diminuita competitività di molti settori tipici delle esportazioni italiane. «L’euro nasconde le debolezze dei Paesi membri, ma, se questi non provvedono a ristrutturazioni e investimenti, ecco che c’è il rischio che tali debolezze rispuntino in maniera particolarmente violenta nei momenti meno opportuni».
Gli investimenti
Se quello dell’export è il filo d’erba che si è avvizzito, c’è un fattore che non mostra da anni neanche un po’ di verde speranza: quello degli investimenti. Il più calo più grave riguarda quelli nel settore delle costruzioni. La loro mancanza segnala un diffuso clima di sfiducia nell’andamento del Paese, talora di vera e propria paura. «È a causa di questo clima che le famiglie preferiscono non avventurarsi in nuovi progetti, come l’acquisto di una casa, né gli imprenditori nella costruzione di impianti. Gli istituti bancari, sia pure con qualche lodevole eccezione, non li incoraggiano».
L’altra gamba zoppa è quella degli investimenti in impianti e macchinari, trascinati verso il basso dalla diminuzione dei margini di profitto in rapporto al Pil.
Il risultato è che, se fino al 2007 l’economia italiana mostrava un tasso di investimento netto di circa il 6 per cento del Pil, da un paio d’anni è prossimo allo zero ed è diventato negativo nel 2013. In questa situazione, l’economia può crescere solo per il miglioramento della qualità dei nuovi prodotti che sostituiscono (ammortizzano) i vecchi beni capitali, ossia normalmente a un tasso molto basso. Per usare un’immagine del rapporto, è come se rinunciassimo a far crescere la cilindrata del nostro motore. Tra i motivi ci sono l’invecchiamento del Paese e la riluttanza degli imprenditori a rimettersi in gioco. Ma c’entra anche la globalizzazione: la libertà di investire in qualsiasi parte del globo ha cambiato il quadro generale. Dei 100 miliardi di investimento persi tra il 2008 e il 2013, circa 50 miliardi, la metà, si ritrova negli investimenti diretti italiani all’estero. «Il risultato è molto importante: una metà della crisi degli investimenti non è quindi una crisi degli investitori, una mancanza di piani e di motivazioni, ma un cambiamento di scelta di destinazione degli investimenti. L’altra metà è invece una crisi vera e propria dell’investimento netto, che riguarda settori (come le costruzioni) o imprese di piccole e medie dimensioni nei quali e nelle quali l’investimento all’estero non è di fatto realizzabile». Se si aggiunge che la crisi ha sostanzialmente cancellato la capacità del sistema economico di produrre un risparmio netto, il che ovviamente scoraggia fortemente la realizzazione di investimenti netti, il quadro è completo. Anche perché gli imprenditori hanno preferito non rompere i salvadanai e dalle banche non sono arrivate ciambelle di salvataggio.
La crisi della nostra economia è, come noto, una crisi di molti settori industriali, a partire dal tessile, che in poco più di 20 anni ha perso la metà degli addetti.
Il calo dell’industria
Fonte: Rapporto Centro Einaudi 2014. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Ma a complicare il quadro c’è la durezza con cui la crisi ha colpito i servizi, che negli ultimi decenni erano stati il settore-rifugio dell’occupazione, ossia quello decisamente più adatto ad assorbire gli esuberi delle ristrutturazioni industriali. Questa volta i servizi non solo non hanno assorbito manodopera da altri settori, ma hanno lasciato a casa il 7 per cento dell’occupazione totale, tanto quanto l’industria.
Il calo dei servizi
Fonte: Rapporto Centro Einaudi 2014. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Le ristrutturazioni colpiscono i settori finanziario e assicurativo (–5 per cento) e la stessa pubblica amministrazione (–5 per cento), un tempo simboli di un lavoro sicuro. «Per la prima volta a finire tra i tagli ci sono i lavoratori della distribuzione all’ingrosso e al dettaglio, che perde addirittura l’8 per cento degli addetti, ossia più della media. Non era mai accaduto». Principale indiziato questa flessione è il commercio elettronico, il cui fatturato nel 2013 ha toccato i 13 miliardi di euro, tutti sottratti alle vendite nei format tradizionali. Viste le eccezionali chiusure di centri commerciali in altri Paesi, potrebbe essere solo l’inizio. Il rischio – anche per un cambio profondo nei modelli di consumo, è «che gli ultimi megastore in arrivo facciano la fine dei dinosauri. Troppo grandi per sopravvivere nell’era che possiamo definire post-Lehman nella quale i consumatori vogliono comprare i prodotti e smettere di “farsi comprare” dagli stessi».
Gli autori mettono le mani avanti e specificano di non essere euro-scettici, ma la disamina del percorso europeo è durissima: ci sono degli squilibri ed è in corso un “aggiustamento”, affidato al mercato, che paradossalmente potrebbe avere l’effetto di rendere sempre più profonde le distanze con i Paesi più forti, Germania in testa, dato il suo effetto fortemente depressivo.
«È normale – spiegano – che in regioni diverse di una stessa area valutaria la dinamica della produttività totale dei fattori non sia uniforme. Per avere una domanda stabile, le regioni a traiettoria sfavorevole (come l’Italia o la Spagna e la stessa Francia) devono subire una «deflazione» del costo dei fattori, mentre le regioni a traiettoria più virtuosa devono subire una “inflazione” (per esempio, aumenti dei salari come riflesso della maggiore produttività). Se questo non avviene, la domanda si sposta gradualmente dai Paesi più deboli verso i Paesi più forti e, insieme alla domanda, si spostano anche le risorse. Per esempio, riducendosi l’offerta di posti di lavoro qualificato nei Paesi deboli, i lavoratori qualificati emigrano, scelta che riguarda circa 100mila italiani all’anno, quasi un nato su cinque (il 18 per cento)».
La nuova emigrazione
Fonte: Rapporto Centro Einaudi 2014. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Questo “aggiustamento” del costo dei fattori può essere mitigato da una politica fiscale centrale che si proponga di redistribuire parte della domanda, ma i trattati europei lo proibiscono esplicitamente. L’Italia è “caduta” in questo aggiustamento, ovviamente a essa sfavorevole, anche perché negli anni delle vacche grasse (1997-2007) non ha fatto a sufficienza le riforme necessarie, da quella del lavoro alle liberalizzazioni.
Cosa vuol dire questo lo vediamo tutti i giorni. «Naturalmente – continua il rapporto – il termine “aggiustamento” è un eufemismo: bisognerebbe dire “contrazione”. L’aggiustamento (o contrazione) italiano, estremamente doloroso per i posti di lavoro distrutti nelle aziende non competitive e per i lavoratori costretti a cercare migliori condizioni all’estero, durerà fino a quando il Paese non tornerà a essere “intrinsecamente competitivo”. Paradossalmente, questo significa che l’aggiustamento potrebbe anche non terminare mai, così come non sono mai cessati, nel dualismo Nord-Sud dell’economia italiana, i divari della crescita economica e i conseguenti flussi di redistribuzione del reddito dalle regioni più a quelle meno prospere. Va da sé che, fino a quando l’aggiustamento sarà in corso, esso avrà un effetto depressivo sul reddito e sui consumi italiani».
Le soluzioni: Servizio Civile nazionale e project financing
Come si può ripartire in quadro così negativo? Per gli autori per spezzare il circolo vizioso bisogna far aumentare la domanda interna e rendere più appetibili gli investimenti, in modo da far tornare i 100 miliardi di investimente netti che mancano all’appello.
Per far crescere la domanda interna, secondo gli economisti del Centro Einaudi, il bonus di 80 euro al mese è stato inefficace perché molto spesso è ricaduto «su soggetti che avevano già una capacità di spesa e non hanno deciso spese aggiuntive». La misura «dovrebbe essere spostata integralmente su coloro che non hanno impiego, e in particolare sui giovani». Uno strumento per realizzare il progetto è già nelle disponibilità della pubblica amministrazione: il Servizio Civile Nazionale, riservato ai giovani in età compresa tra i 18 e i 28 anni, che avvia a progetti di servizio civile, della durata di un anno, circa 20 mila giovani per anno, con un tasso di selezione delle domande di 1 a 10. «È ragionevole pensare – si legge – che, se si riuscisse a “dirottare» il «bonus” già assegnato raddoppiando il compenso (oggi pari a 433 euro netti mensili), si potrebbe recuperare a un’attività lavorativa e dare un reddito ad almeno metà dei disoccupati tra i 18 e i 24 anni, che, secondo l’Istat, ammontano a 701mila in tutto lo Stivale».
Sul lato degli investimenti, invece, la priorità è vista nelle costruzioni. Per le opere pubbliche, in particolare, «sarebbe consigliabile estendere ovunque possibile la pratica del project financing, semplificando però la relativa legge». Il motivo è che «il project financing presenta due vantaggi rispetto ad altre soluzioni: seleziona i progetti che sono finanziariamente sostenibili e stimola la realizzazione dell’opera in tempi certi, perché il piano dei ritorni della gestione dipende da una esecuzione tempestiva». C’è però da aggiungere che lo strumento del project financing, a partire da grandi opere come la Pedemontana lombarda, sta mostrando molti limiti, soprattutto nel coinvolgimento di veri investitori privati. Accanto alle opere pubbliche, per lo studio bisognerebbe incentivare maggiormente l’edilizia privata, dal punto di vista fiscale. Una tassazione completamente rivista, con l’obiettivo della semplificazione, è un’altro dei tasselli da cui ripartire, assieme alla riforma delle banche. Il modello della banca retail sta diventando obsoleto. Il nuovo «dovrà essere orientato alla facilitazione dei progetti delle imprese clienti, assicurando un affiancamento costante, senza escludere l’assunzione temporanea di partecipazioni perfino nel- le piccole e medie imprese».
Se 100 miliardi mancano all’appello, conclude i Rapporto, occorre ripristinare investimenti per 100 miliardi. E qui una nota di ottimismo ritorna: «Aumentare gli investimenti netti è possibile – si legge – perché le famiglie in Italia hanno uno dei maggiori «salvadanai» di ricchezza finanziaria privata al mondo: 3.500 miliardi contro appena 900 miliardi di passività finanziarie. A questa si devono sommare circa 6.000 miliardi di ricchezza reale, che potrebbe essere costituita a garanzia. Proprio in base a tali dati, l’Italia deve cessare di pensare di essere un Paese povero; povero non è, se non di nuove iniziative. È questo il reale gap che separa l’Italia dagli altri Paesi avanzati, e si tratta probabilmente di quello meno facilmente superabile».