Percival Everett, il senso letterario dell’artista

Percival Everett, il senso letterario dell’artista

Ci sono voci che sono fatte per la prima persona. Modi di scrivere intimi e grandiosi, al limite della schizofrenia letteraria, che non possono che evolversi attraverso l’esperienza e lasciarsi influenzare senza opporre resistenza da quello che succede, giorno dopo giorno, munito dopo minuto, secondo dopo secondo, nel mondo che sta fuori dalle pagine. Per poi piegare la realtà a proprio piacimento con la stessa velocità applicata all’assimilazione del reale. Ci sono scrittori che non possono fare a meno di spremere se stessi nei loro lavori e capita che quello che sono risulti diverso da quello che ci si aspetterebbe.

Percival Everett ha scritto una trentina di romanzi, il primo, Suder, è uscito nel 1983, l’ultimo, Percival Everett di Virgil Russell nel 2013 — in Italia per Nutrimenti, 2014, tradotto da Letizia Sacchini. In mezzo c’è una vita di sperimentazione letteraria, di ricerca sterminata, del continuo scendere un girone più in basso nella scoperta di sé, fino ad aprirsi completamente al lettore e finirci davvero, nel titolo di un romanzo. La carriera di Everett è segnata dal continuo svelare, per mascherare la nudità con l’evidenza dell’auto-fiction, i suoi scritti sono la carne che sostiene uno scheletro di sapere perpetuo e che assume le varie forme, quantomai imprevedibili, di cui è fatta la prosa: romanzi mascherati da western, dissertazioni filosofiche travestite da epopee d’avventura, ricerche sulla lingua che si mescolano alla narrativa di formazione. Al tavolino di un bar dell’Eur, a Roma, cerco di estraniarlo dalla prima persona e portarlo a vedersi con oggettività, viene fuori che lo sa fare benissimo da solo: «La produzione di ogni artista — usa “artista” per “scrittore”, e questo dovrebbe già suggerire molto del suo attaccamento alla letteratura, ndi — è sempre intensamente personale, che sia messa in prima o in terza persona. È un paradosso: non mi piace l’autobiografia, ma qualsiasi cosa io scriva è condannata ad essere in qualche modo autobiografica».

A un certo punto della conversazione viene fuori And Their Eyes Where Watching God, il capolavoro di Zora Neale Hurston, pietra miliare della letteratura afroamericana e nodo gordiano della formazione di Everett. Erasure — in Italia Cancellazione, uscito nel 2007 per Instar Libri e tradotto da Marco Bosonetto — rappresenta probabilmente il tentativo più evidente di fondere il se stesso personaggio al se stesso scrittore. Thelonious “Monk” Ellison è un autore afroamericano, osteggiato dalla critica per non essere abbastanza nero e sufficientemente cinico da non dare a vedere apertamente il suo dolore mentre si forza a chiudere romanzetti vagamente gangsta per incrementare le vendite. Everett vive in Monk e con lui la sua esperienza. «Ho scritto Erasure nei primi anni Duemila. Non credo che le cose siano migliorate, ora, ma sono cambiate. Sono cresciuto leggendo scrittori afroamericani e sembrava che esistessero solo due argomenti che gli era permesso trattare: le città degradate e il profondo Sud. Romanzi della schiavitù o romanzi del ghetto, nient’altro. L’editoria ha alimentato per anni gli stereotipi esistenti, facendo delle scelte ben precise riguardo a cosa un autore afroamericano avrebbe scritto e venduto, e di conseguenza decidendo cosa gli afroamericani avrebbero dovuto leggere. C’è stato un cambiamento di pensiero e un cambiamento nelle scelte editoriali, in parte dovuto ad Erasure. Le realtà indipendenti si sono fatte via via più aperte a proposte differenti, ma lo stereotipo esiste ancora».

La letteratura filtra nella società come un ventaglio di rivoli che si aprono dalla portata di un grande fiume, la società investe la letteratura come una piena e quando è passata rischia di non lasciare niente dietro di sé. La fortuna è che i rivoli possono vivere per sempre, mentre una piena come è venuta, se ne va. Pensavo a Ferguson e a Eric Garner , mentre ascoltavo la voce profonda e quieta di Everett ripercorrere la sua storia. «Prima di tutto bisogna considerare che queste cose sono sempre successe e che succederanno sempre. Anche l’indignazione è periodica, non dura. Sono contento di vedere l’indignazione, molto contento di sentire quell’espressione di sdegno condiviso nei confronti della violenza della polizia, che sale quando si verificano fatti come quelli di Ferguson. E penso che prima o poi tutto questo possa portare a un vero cambiamento, che le cose miglioreranno, anche se per ora tutto sembra immobile. Da artista devo credere che l’arte possa influenzare a tal punto la realtà da migliorarla, ma la verità è che la gente legge sempre meno e ancora meno persone leggono la narrativa letteraria e se aspettiamo che sia il cinema a cambiare la realtà, allora siamo fottuti. Il cinema nutre una specie di influenza diretta sugli spettatori, pericolosa in qualche modo. Nessuno oggi si sognerebbe mai di girare qualcosa come Nascita di una nazione o altre pellicole di propaganda razzista, ma chi può dire con certezza cosa ci riserva il futuro? In tutte le forme d’arte persistono gli stessi stereotipi che hanno caratterizzato la letteratura».

L’arte letteraria, per Everett, non è merce di scambio e non ha ragione di scendere a compromessi con le leggi di mercato. C’è un punto su questo argomento in ogni suo libro. «Finché gli editori continueranno a considerare l’arte per quella che è e non semplicemente uno strumento per ingrassare le proprie casse, forse ci sarà speranza. Se gli scrittori pensassero solo a vendere il libri che stanno scrivendo, la letteratura morirebbe in pochissimo tempo. Immagina se Picasso avesse dipinto Guernica solo pensando a come avrebbe potuto piazzarlo sul mercato, probabilmente non sarebbe quello che è. Non avrebbe cambiato il mondo. Il dovere degli artisti è quello di continuare a provare a cambiare il mondo, da tutti i punti di vista: sociale, politico e artistico». Il rischio è che, a un certo punto, troppi artisti cerchino d cambiare il mondo contemporaneamente. «La cosa bella dell’arte è che è democratica e lo slancio artistico non si può fingere. Ogni volta che sento di qualcuno che sta iniziando a scrivere un romanzo, rimango impressionato. Perché so che nessuno lo fa — o dovrebbe farlo, c’è chi lo fa ed è completamente pazzo — per cercare di arricchirsi. Scrivere è una missione d’amore. Per l’arte, per la letteratura. Non c’è niente di male in questo, che ci siano dieci milioni di persone che seguono questa via o che ce ne siano solo venti, non importa. L’ispirazione che scorre tra loro è la stessa e questa è una cosa buona».

Quello che appare chiaro dopo un po’ di tempo a tracciare il profilo dello scrittore-artista, è che l’uomo che ho davanti è in missione da molti anni. Ha esplorato le vie della narrazione, seguendo un’ispirazione radicata e forte e forte. Trascinante, tanto per l’autore quanto per il lettore. «Mentre scrivevo il mio primo romanzo pensavo: “Che cazzo sto facendo?”. Che è più o meno quello che penso ogni volta che mi imbarco in un nuovo progetto. Ci sono persone abilissime nel raccontare le storie, io non sono una di queste. Non sono arrivato alla narrativa da narratore. Ho percorso una via più filosofica, ho seguito la costruzione dell’argomento, più che la costruzione della trama. Quello che mi tiene incollato al mio lavoro è il fatto di indagare il significato filosofico del romanzo e di come questo cambi con il passare del tempo e a confronto con i diversi personaggi. Non so mai, quando incomincio a scrivere, quale domanda filosofica finirò per sollevare o che piega prenderà la storia. Non so nemmeno perché mi vengono in mente certe storie. Posso partire da un personaggio, da una frase, da un ragionamento, ma non riesco mai a vedere l’evoluzione della trama prima di arrivare alla fine. Devo avere fede nel fatto che i miei interessi troveranno il modo di filtrare attraverso quello a cui sto lavorando. Potrei dire che per scrivere un romanzo mi ci sono voluti cinquantotto anni e che è ancora in corso, e non direi una bugia».

Più di tutto, dalla scrittura di Everett, emerge una devozione assoluta allo studio. «Qualsiasi cosa io abbia studiato nella mia vita, dalla chimica alla filosofia politica, è una fonte di ispirazione narrativa. Nel mio ultimo romanzo a metà della vicenda spunta qualcosa di Joyce. Non sapevo che sarebbe successo finché non l’ho visto in pagina e mi sono detto: “Oh, mi piace. Lo lascio dov’è”». Qualche mese fa, Marco Rossari — che oltretutto ha tradotto Non sono Sidney Poitiers (Nutrimenti, 2012), Ferito (Beat, 2012) Deserto americano (Nutrimenti, 2009), Glifo (Nutrimenti, 2007) e altri — faceva presente su Studio che uno come Everett può scrivere come gli pare. È assolutamente vero. Ed è anche vero che può pescare dove gli pare la sua ispirazione, proprio per il fatto di sapere quello che sta facendo e finché lo farà andrà tutto bene.

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