Nulla di fatto su “Made In” e occupazione giovanile, ma obiettivi centrati sul bilancio Ue 2015, Ogm e clima. Sei mesi in chiaroscuro per l’Italia alla Presidenza dell’Ue. A Renzi restano 48 ore per provare a far cambiare verso all’Europa.
Il 31 dicembre si chiuderà ufficialmente il semestre dell’Italia alla Presidenza del Consiglio europeo. Sei mesi complessi, scanditi dagli strascichi della campagna elettorale per le europee, dal peggioramento delle previsioni economiche e dall’insediarsi di una nuova Commissione. Tre elementi di cui si deve tenere conto mentre si rileggono i mesi a ritroso, provando a stilare un bilancio delle cose fatte e dei problemi rimasti irrisolti.
“L’Europa cambia verso”. Durante la campagna per le europee è stato questo il leitmotiv scelto da Renzi per misurare sul campo la propria potenza di fuoco elettorale. Il 26 maggio, a urne ormai chiuse, il Premier festeggiava due risultati storici: un PD al 40,8% e la vittoria – schiacciante – sulle diverse voci euroscettiche che animano il Paese. Un dato ancora più importante se paragonato ai risultati elettorali registrati negli altri Paesi Ue.
L’avvio del semestre di presidenza italiana, di lì a poco più di un mese, si preannunciava dunque carico di promesse. Sei mesi di lavoro intenso per cambiare le priorità politiche e per reindirizzare le ricette economiche. Parole chiave del governo: crescita e occupazione. E poi sullo sfondo sempre lei, la flessibilità.
A esperienza ormai quasi conclusa la domanda sorge spontanea: l’Europa ha davvero cambiato verso? La risposta non è semplice, né scontata. E anzi molto potrebbe dipendere proprio dalle prossime 48 ore, e da come si concluderà il vertice dei capi di Stato in programma a Bruxelles. L’ultimo a guida italiana, ma fondamentale per delineare la strada che l’Unione deciderà di percorrere nei prossimi anni e da cui dipenderanno ripresa, occupazione e crescita.
A complicare il lavoro del governo italiano l’oggettiva difficoltà di prendere in mano le redini dell’Ue nei mesi successivi al rinnovo delle istituzioni. Il turnover in Parlamento e in Commissione, l’arrivo di eurodeputati “principianti”, ma anche la battaglia tra i 28 stati membri per le nomine nei posti chiave, così come il braccio di ferro sulla nuova Commissione europea, hanno distolto attenzione e risorse intellettuali. Dossier importanti e più urgenti sono rimasti nel cassetto. Forte del successo elettorale, Renzi ha messo sul tavolo tutto il peso politico di cui era in possesso – facilitato in questo da un corrispondente indebolimento degli altri leader europei, puniti pesantemente dagli elettori – imponendo Federica Mogherini come Alto Rappresentante per la Politica Estera. Un posto di grande prestigio, ma poco utile alla difesa degli interessi italiani in Europa, soprattutto per i limiti ancora esistenti alla Politica estera e di sicurezza comune.
Sul fronte dell’occupazione, poco o nulla. La proposta del governo di aumentare i 6 miliardi del fondo di garanzia per i giovani si è risolta in un nulla di fatto.
È andata meglio sul piano ambientale e della lotta contro i cambiamenti climatici, altro obiettivo della Presidenza italiana. Il pacchetto sul clima, ereditato dalle precedenti presidenze, è stato chiuso il 23 ottobre. Un negoziato importante non soltanto per gli obiettivi che si è prefissato (taglio delle emissioni di CO2 del 40% entro il 2030, aumento del 27% delle rinnovabili ed efficienza energetica, incremento dal 2020 delle reti d’interconnessione energetica) ma che ha anche permesso all’Ue di presentarsi alla conferenza di Lima con una proposta chiara, tracciando la strada per il vertice di Parigi del prossimo anno.
Successo anche in agricoltura per l’accordo sugli OGM, che tutela la scelta degli Stati di non coltivare prodotti geneticamente modificati. Salva, almeno per il momento, la qualità dei prodotti alimentari italiani.
Resta, invece, in alto mare il regolamento sul Made In che una volta in vigore obbligherà gli Stati a indicare l’origine dei prodotti. Testo di fondamentale importanza per l’industria italiana, licenziato da Commissione e Parlamento Ue eppure osteggiato in Consiglio dalla Germania. Il Governo Renzi avrebbe potuto sfruttare questi mesi al comando dell’Ue per far avanzare il dossier, ma così non è stato.
Sul fronte della politica migratoria e dell’accoglienza e salvataggio dei migranti va registrata l’entrata in vigore, lo scorso 1 novembre, del programma comunitario Triton. Pensato dall’Europa come “sostegno” all’impegno italiano, rappresentato dall’operazione Mare Nostrum. Se la richiesta di aiuto all’Europa evocata da Renzi a Strasburgo durante la sessione plenaria di luglio sembra essere stata ascoltata, la potenza di Triton appare dubbia. Considerato il numero degli arrivi, 258.000 persone soltanto nel 2013, con appena 3 milioni di euro al mese – contro i 9 di Mare Nostrum – Triton rischia di rivelarsi inutile.
Pochi i risultati raggiunti anche nello sviluppo dell’agenda digitale, dossier che passa alle Presidenze lettone e lussemburghese, così come quello relativo all’istituzione della Procura unica europea, sulla cui futura architettura si è iniziato, però, a discutere in questi mesi.
Dal punto di vista finanziario ancora nessun accordo sulla Tobin Tax, mentre la Presidenza italiana può vantare di essere riuscita ad avviare, grazie all’ok dell’Ecofin d’inizio dicembre, il giro di vite contro l’evasione fiscale delle multinazionali in Europa. Un tema di grande attualità dopo lo scoppio dello scandalo Luxleaks. Altro risultato ottenuto dal governo italiano è stato di riuscire a chiudere in tempo i negoziati sull’entità del bilancio comunitario per il 2015 e sul pagamento di 28 miliardi di euro di fatture erogate e non ancora pagate, relative a servizi svolti nel 2014.
La presidenza italiana si è concentrata quasi interamente sulla battaglia di Renzi per vedere applicate in modo più esteso le clausole per la flessibilità contenute nei Trattati europei. Una battaglia giusta in principio, ma che forse ha fatto perdere di vista altre importanti priorità. Se la staffetta Barroso-Juncker si annunciava, infatti, favorevole per l’Italia, i botta e risposta – accompagnati da rettifiche e pronte smentite – tra l’ex premier lussemburghese e Renzi hanno ricreato un diffuso scetticismo e un clima di diffidenza tra Roma e Bruxelles.
Il piano d’investimenti presentato da Juncker è stato letto da molti come il segnale di un “cambiamento di verso” europeo, ma è bastato leggere comma e regolamenti per capire che così non è. È vero, dopo anni di tagli e di ricette austere l’Europa torna a parlare d’investimenti, ma lo fa sempre tenendo a mente il rigore di bilancio, come hanno testimoniato i richiami sulla gestione dei conti pubblici di Italia, Francia e Belgio.
I 315 miliardi di euro di investimenti ipotizzati dal neo-presidente della Commissione, ottenuti grazie all’effetto moltiplicatore degli appena 21 miliardi oggi esistenti, potrebbero non bastare per finanziare gli oltre duemila progetti presentati – 94 dei quali soltanto dal nostro Paese. Il rischio è che senza la contribuzione diretta degli Stati Ue al fondo per gli Investimenti, il Piano Juncker non veda proprio la luce.
Un’ipotesi non così remota, se la proposta italiana di scorporare i finanziamenti per gli investimenti dal calcolo del deficit, promessa da Juncker, dovesse essere improvvisamente ritrattata. Il tutto si vedrà nelle prossime 48 ore. Se Renzi riuscirà a far convergere gli altri 27 leader sulla sua proposta, sarà questa la vera, grande vittoria italiana. Che potrebbe però non bastare, considerato lo sforzo che viene richiesto al nostro Paese entro il mese di marzo per riportare i conti pubblici in linea con le norme Ue, pena l’apertura della procedura d’infrazione per debito eccessivo.
Uno scenario che forse è meglio non evocare, ma che sarebbe stato meno probabile con una diversa agenda delle priorità da parte della Presidenza italiana.