Ritorno al paese delle cose selvagge

Ritorno al paese delle cose selvagge

La prima cosa nota è che Maurice Sendak avrebbe dovuto disegnare dei cavalli e siccome non era capace ne è uscito Where the Wild Things Are. La seconda cosa, meno nota forse, è che quelle Wild Things, quelle cose selvagge che poi nella traduzione italiana sono diventate brevemente e non del tutto giustamente mostri, facevano eco a un’espressione yiddish: vildechay. Vildechay sono i bambini che non riescono a stare buoni, quelli che disubbidiscono come il protagonista di Wild Things e che quindi vengono spediti nelle loro stanze a pensarci sopra, nella speranza di scovare un mondo fantastico sotto il letto o dentro l’armadio che non sia popolato da quegli stessi adulti noiosi e raccapriccianti. I mostri di Sendak sono i suoi parenti, ben oltre il limite del grottesco, e tutto il libro, scritto e illustrato nel 1962 e pubblicato nel 1963, è una grande quanto impietosa allegoria di quel mondo adulto che «ti ronza intorno con il suo alito infernale e ti toccaccia, ti pizzica e ha gli occhi sempre iniettati di sangue. Orribile! Davvero orribile!» per dirla con il suo autore.

Hanno passato gli anni della mia infanzia a regalarmi copie de Il piccolo principe, le mie Wild Things, quando avrebbero potuto illuminarmi con un capolavoro che, a conti fatti, è ben più vicino alla mia realtà personale di quanto ognuno di loro potesse immaginare. Un mondo irreale, popolato dall’anima nera di chi vive nel mondo reale e dal mondo reale costringe a scappare. Obbliga a cercare alternative senza curarsi delle affezioni e degli affetti. I mostri di Sendak hanno i nomi dei suoi parenti: Moishe, Bernard, Tzippy, e alcuni hanno qualche mostro dentro a loro volta. Sendak si lasciava dietro la Tragedia della Shoah e cercava riparo nell’invenzione di una paura concreta ma felicemente immaginaria.

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La genialità si nasconde dietro ai silenzi, considerando che l’intero libro è composto da trecentottantatré parole contate e forse quei silenzi avrebbero potuto popolare meglio il film del 2009, in cui invece i mostri parlano fin troppo. Il passaggio dalla carta alla pellicola ha segnato anche una sorta di passaggio generazionale, che sembra fare da richiamo ai quarantacinque anni e il paio di tentativi andati a vuoto, prima di capitare nelle mani di Dave Eggers e Spike Jonze. Da un libro per bambini ne è uscito un film per adulti, popolato da mostri ben consapevoli della loro condizione e benedetti dalle voci di James Gandolfini, Paul Dano e Chris Cooper, ma non è una cosa nuova. Sono diversi gli esempi di letteratura per ragazzi che una volta sullo schermo assume toni ben più oscuri e finisce per mettere in luce quelle atmosfere che nei libri vengono solo accennate.

Ai tempi della sua prima comparsa nelle librerie, edito da Harp&Row, Wild Things non ebbe immediatamente il successo sperato. I genitori erano ritrosi a comprare il libro per i propri figli, impauriti dall’impatto che l’aspetto dei mostri poteva avere sui bambini. Come i personaggi che avevano ispirato i protagonisti del libro, gli adulti non avevano capito niente. Verso la fine degli anni Ottanta, il capolavoro di Sendak, ormai affrancato, ha ottenuto il suo posto nella storia della letteratura per ragazzi, forte del fatto che quei bambini che non lo avevano potuto sfogliare, una volta cresciuti avevano cominciato a regalarlo ai propri figli.

La letteratura per bambini è uno strumento in evoluzione e adattamento che deve saper rimanere in tutte le fasi della crescita. Chi in passato ha criticato gli ultimi capitoli della saga di Harry Potter per il loro taglio oscuro, non ha tenuto conto del fatto che chi ha cominciato leggendo La pietra filosofale, ora de I doni della morte aveva sviluppato un gusto più vicino all’estetica adulta. Era, di fatto, cresciuto assieme ai suoi personaggi e non sarebbe potuta andare meglio. Se la letteratura per l’infanzia si limitasse ai buoni sentimenti — leggi di nuovo alla voce “mito di Saint-Exupéry” — nascondendo tutti i mostri dalla vista dei bambini più impressionabili, porterebbe a compimento solo la metà del lavoro cui è predisposta: intrattenere ed educare, fin dove le è possibile arrivare. Le Wild Things di Sendak sono preziosissime perché sanno sintetizzare questi due aspetti nella rappresentazione del grottesco e con pochissime parole, tutte spese nella direzione giusta.

Il lavoro di Sendak è uno sforzo di esplorazione della psiche senza precedenti. L’abbattimento dei tabù del non detto e l’abbandono del buonismo fine a se stesso lo pongono di diritto nell’immaginario internazionale, oltre che sotto i letti dei bambini di tutto il mondo. Assieme ai suoi mostri, dove speriamo rimanga per sempre.

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