TaccolaServono tre miliardi per salvare l’Ilva

Servono tre miliardi per salvare l’Ilva

Le grandi partite dell’acciaio per qualche ora si sono riaperte tutte assieme. Come era successo ai primi di ottobre, quando si erano infiammati i fronti di Piombino, Terni e Taranto. Con una differenza: per i primi due poli produttivi ora si sta mettendo un punto fermo. Per Piombino è una mezza vittoria, per Terni una situazione che rimane instabile ma a cui sono state messe delle toppe. Lo stallo della Ferriera di Trieste nel frattempo è stato superato, con l’acquisto da parte del gruppo Arvedi. Ora tutta la concentrazione del governo può passare all’Ilva di Taranto: il premier Renzi in un’intervista di sabato 29 novembre a la Repubblica ha anticipato un intervento pubblico, temporaneo, per risanare ambiente, tecnologia e soprattutto la situazione finanziaria dell’impianto. Nel disastro attuale, con i 250 milioni iniettati dalle banche in esaurimento già a fine anno, le offerte arrivate finora, a partire da Arcelor Mittal, sono state considerate irricevibili. Su quest’ipotesi il presidente del Consiglio ha raccolto consensi trasversali, dai sindacati, in testa Maurizio Landini, ai commentatori di tutti gli schieramenti. 

Forse già venerdì 5 – e non giovedì come detto da alcuni giornali, perché il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi sarà a Bruxelles – il governo potrà chiarire come intende muoversi in concreto. I dubbi sono infatti molti e i conti non tornano, a partire dal ruolo che dovrà avere il possibile partner privato, la Arvedi di Cremona. Per essere chiari: non è una partita che si risolve con i 300 milioni, evocati nelle ultime ore, che dovrebbe mettere la Cassa Depositi e Prestiti attraverso il suo Fondo Strategico Italiano. 

Davanti all’assemblea di Federacciai, a Brescia, il 5 novembre scorso, Renzi aveva annunciato: «Da Taranto a Brescia passando per Piombino o il sistema Paese avanza una proposta per uscire dall’impasse in cui ci troviamo, o non ci sarà modo di garantire un futuro alla siderurgia italiana». Il governo non ha voltato la faccia davanti al problema. Ma, avverte, un esperto del settore come il direttore dell’ufficio studi della rivista Siderweb, Gianfranco Tosini, nessuna delle partite è risolta e il problema della siderurgia non si risolve in pochi mesi. 

Piombino: l’accordo con Cevital che preoccupa i bresciani

Mentre a Roma il terremoto dei 37 arresti per l’intreccio di Mafia e politica scuoteva tutti i palazzi della politica, Matteo Renzi martedì 2 dicembre era ad Algeri. Durante l’incontro con il presidente della repubblica Abdelaziz Bouteflika, ha vidimato ufficialmente la vendita agli algerini delle acciaierie di Piombno. «Avevamo preso un impegno per Piombino e lo abbiamo mantenuto» ha detto. Nelle stesse ore arrivava il via libera del Ministero dello Sviluppo, dopo che il commissario straordinario dell’ex Lucchini Pietro Nardi  aveva trovato l’accordo. 

A Piombino Jindal garantiva, con certezza, solo 750 posti di lavoro. L’offerta algerina riguarda tutti i 1.860 lavoratori

«Siamo molto soddisfatti», è stato il commento di Luciano Gabrielli, segretario della Fiom della Provincia di Livorno. Una posizione che nasce dal confronto con la precedente proposta, quella degli indiani di Jindal (Jsw), che garantiva, con certezza, solo 750 posti di lavoro. L’offerta algerina promette invece di assorbire tutti i 1.860 lavoratori. Saranno acquistati i rami d’azienda Lucchini Piombino, Lucchini Servizi e Vertek Piombino e le azioni (69,27%) di Gsi Lucchini. Cevital opera in diversi settori che spaziano dall’industria, all’agroalimentare, all’automotive, alla produzione e vendita di prodotti in vetro, alla grande distribuzione. A Piombino, ha detto il ministero dello Sviluppo economico in una nota, si è impegnata nella realizzazione di due forni elettrici e a fare altri investimenti nell’attività siderurgica, accompagnati dallo sviluppo di nuove iniziative industriali in ambito agro-alimentare e logistico, con investimenti previsti di circa 400 milioni di euro e prospettive, a regime, di pieno riutilizzo del personale Lucchini e Lucchini Servizi.

L’Algeria è un mercato importantissimo per gli industriali bresciani. L’arrivo di Cevital lo mette a forte rischio

I problemi, semmai, iniziano ora per gli altri produttori italiani di acciai speciali. Come l’indiana Jindal, anche la Cevital ricorrerà a una tecnologia che produce acciaio con forni elettrici alimentati dal “preridotto”, un materiale ferroso semilavorato che permette di ridurre l’impatto ambientale e ed essere alternativo rispetto ai forni alimentati dal rottame, più caro (per quanto la qualità resti inferiore a quella assicurata dall’altoforno, che però è molto più inquinante). La differenza è che nell’ipotesi di Jindal il preridotto poteva essere prodotto a Piombino, in quella di Cevital arriverà dall’Algeria. La ragione è semplice: per produrlo serve un’ingente quantità di gas (per questo l’impatto ambientale è molto ridotto rispetto all’uso del coke), che in Italia è carissimo, circa il 30% in più rispetto alla media europea, e in Algeria, paese produttore dove l’Eni è presente dai tempi di Enrico Mattei, è a prezzi stracciati. Per i concorrenti italiani – in testa i produttori bresciani che realizzano acciai speciali con forno elettrico – questo significherà avere in casa un concorrente che opera a prezzi molto inferiori. Per questo, ha spiegato Ugo Calzoni sul Corriere della Sera di Brescia, prendere sottogamba l’offerta di Cevital e in generale la questione Piombino può essere un errore che gli industriali lombardi rischiano di pagare caro. C’è un altro aspetto, che forse non tutti conoscono: l’Algeria è un mercato importantissimo per gli industriali bresciani; il suo peso per tondi e vergelle è pari a quello dell’Italia, spiega Gianfranco Tosini di Siderweb. L’ingresso di Cevital in Italia significa che il primo mercato dell’export è in grave pericolo.  

Terni, la maratona prima dell’accordo

Sulle prime pagine dei quotidiani se ne è parlato in occasione degli scioperi e soprattutto della repressione da parte della polizia durante una manifestazione, che provocò il ferimento di alcuni operai. Ora che sulle acciaierie Thyssenkrupp di Terni (Ast) si sta arrivando a un accordo la notizia è relegata nei quotidiani locali dell’Umbria. La questione si avvia a una soluzione, anche se la trattativa finale è durissima. L’incontro tra azienda, sindacati, ministero dello Sviluppo economico ed enti locali è iniziato ieri, martedì 2 dicembre, alle 15 al Mise. È andato avanti tutta la notte. L’annuncio dell’accordo è arrivato alle 15 di mercoledì 3 dicembre, 24 ore dopo l’inizio delle trattative. 

Maurizio Landini, ha abbandonato per qualche ora il tavolo per partecipare alla trasmissione tv Ballarò

Nel corso della serata c’è stato tempo anche per una polemica tra sindacati perché il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, spiega umbria24.it, ha lasciato il Mise per partecipare alla trasmissione tv Ballarò. Nella notte filtravano le voci sullo stallo. Il segretario della Fim Cisl, Marco Bentivogli, in un tweet delle 5.44 commentava così: «Dopo 15 ore di no-stop passi avanti ma azienda lentissima ad aprire su nodi clausola sociale, salario e rinuncia a Cigs». Il quotidiano online umbria24.it ha riportato una cronaca serratissima.

A Terni zero esuberi: 290 persone hanno accettato l’esodo volontario a fronte di 60mila euro di incentivo

Il punto principale dalle prime battute era stato però risolto: non si parla più di 4-500 esuberi. Nessuno sarà licenziato, ma 290 persone hanno accettato l’esodo volontario a fronte di 60mila euro di incentivo. I punti aperti riguardavano la cassa integrazione (l’ad di Thyssenkrupp Lucia Morselli chiede quella straordinaria invece di quella ordinaria), il salario integrativo e soprattutto la clausola di salvaguardia che dovrebbe tutelare le ditte esterne fornitrici. Altro punto dibattutto ha riguardato quanti anni sarebbe durata la garanzia di tenere aperto il secondo dei due forni, se quattro o due anni. Attualmente la forza lavoro del gruppo, inclusi i 290 che usciranno, è di 2.673 unità – 2.235 in Ast, 218 alla Società delle fucine, 157 al Tubificio, e 63 in Aspasiel.  

Nonostante l’accordo la soluzione resta precaria. La motivazione è chiara: ThyssenKrupp vuole da tempo vendere lo stabilimento, che non considera strategico. Aveva già deciso di cederlo alla società finlandese, Outokumpu, nel 2012. Ma l’accordo fu bocciato dall’antitrust europeo, per abuso di posizione dominante e le acciaierie umbre tornarono alla società tedesca, che disse subito di non volerci puntare. Bisognerà quindi capire, chiusa l’attuale fase caldissima, se ThyssenKrupp nei prossimi mesi tornerà a cercare un acquirente esterno. Per Gianfranco Tosini, di Siderweb, i problemi a Terni sono tutt’altro che risolti. «La situazione è peggio che all’Ilva. Quella è una società che non sta in piedi, che non ha più patrimonio. Basta inoltre leggere l’ultimo bilancio di Thyssenkrupp per vedere che vuole uscire definitivamente dall’acciaio, come ha già fatto in tutti i Paesi extra-europei». 

Ilva: entra in campo Cassa Depositi e Prestiti

Sulla discesa in campo della Cassa Depositi e Prestiti per l’acquisto dell’Ilva di Taranto i punti da chiarire sono molti. Nell’ordine: come e quando sarà modificata la legge Marzano per far sì che il Fondo Strategico Italiano possa entrare nell’Ilva. Se Fsi comprerà una quota direttamente dell’Ilva o piuttosto entrerà nel capitale degli industriali di Arvedi. Cosa succederà una volta che l’azienda fosse considerata risanata. E soprattutto: quanti soldi il governo italiano è disposto a mettere. 

L’indebitamento dell’Ilva è stimabile in circa 4,85 miliardi di euro

L’Ilva di Taranto non pubblica bilanci da due anni. Il suo indebitamento elevatissimo è solo stimabile. Come riportato da Claudio Antonelli di Libero oggi dovrebbe essere di circa 4,85 miliardi di euro. È la somma dei 2,9 miliardi del 2011, dei 1,7 miliardi che si sarebbero aggiunti da allora (Ilva ha perso 70 milioni al mese e dopo il cambio dei vertici ne perde circa 35) e dei 250 milioni di prestito ponte assicurato dalle banche e che rappresenta di fatto l’unica liquidità della società. Peraltro in esaurimento, se è vero, come sottolinea a Linkiesta Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, che i soldi bastano solo per pagare gli stipendi di dicembre e le tredicesime. Pur con tutti questi debiti, la società non è insolvente e non può dunque accedere alla legge Marzano. In altri termini, il commissario straordinario, Piero Gnudi (in sella dallo scorso giugno) non può vendere le azioni, che sono tuttora al 90% della famiglia Riva e al 10% della famiglia Amenduni. Per questo servirà una modifica alla stessa legge Marzano, per farvi rientrare anche le aziende considerate “strategiche”. Le ipotesi sono o un emendamento alla legge di Stabilità o un decreto legge ad hoc. Nell‘incontro di venerdì 5 dicembre – se sarà effettivamente quella la data – si dovrebbe arrivare a una decisione. 

Fsi potrebbe entrare nel capitale di Arvedi con 300 milioni e questa potrebbe acquistare l’Ilva

Molto più cruciale è il tipo di intervento che si farà. Da un’indiscrezione riportata da La Stampa, Cassa Depositi e Prestiti non entrebbe direttamente nel capitale dell’Ilva. Piuttosto, il suo fondo Fsi potrebbe investire una somma non ancora definita, ma che potrebbe aggirarsi attorno ai 300 milioni di euro, per rilevare una quota di minoranza del gruppo Arvedi. A quel punto, forte dell’iniezione di capitali del fondo, il gruppo guidato dal cavaliere Giovanni Arvedi potrebbe prendersi da solo o con altri soci la parte sana dell’Ilva. 

Nel frattempo si sarebbe infatti creata una bad company, nella quale far finire i buchi neri del bilancio, i rischi giudiziari e forse anche il risanamento ambientale. Un’operazione in stile “Alitalia”, in cui però non è affatto chiaro chi dovrebbe farsi carico delle perdite: lo Stato, ovvero i contribuenti, o i Riva, o entrambi. Anche la creazione della bad company dovrebbe passare dalla legge di Stabilità o da un decreto legge. 

Palombella, Uilm: “Arvedi non ha la forza per comprare l’Ilva, può essere un socio di minoranza della Cdp”

Questa soluzione non convince però Rocco Palombella, Uilm, che a Linkiesta commenta: «Arvedi non ha la massa finanziaria per arginare i problemi finanziari dell’Ilva. Ha però la conoscenza dei processi siderurgici. Potrebbe quindi entrare come socio di minoranza, mentre la maggioranza dovrebbe metterla il pubblico». Quanto alla bad company, aggiunge Palombella, «scaricare le passività non è un’operazione semplice, ci deve essere un equilibrio tra il risanamento ambientale del sito e quello del territorio». Il costo del risanamento ambientale dello stabilimento, previsto dall’Aia, è di 1,8 miliardi di euro. Oltre a questo andrebbero messi in conto almeno uno o due miliardi di euro per investimenti tecnologici, dato che si deve lavorare sull’efficienza. Si supererebbero i 3,5 miliardi di euro. «Di sicuro non bastano i 300 milioni dati ad Arvedi», commenta Davide Lorenzini, redattore senior di Siderweb.  

Da Palombella, così come poche ore prima da Landini (ma anche da commentatori di giornali di tutti gli schieramenti) arriva invece una piena promozione per l’idea che lo Stato entri direttamente nella partita. «Sono convinto che per la rilevanza che lo stabilimento di Taranto ha per la siderurgia italiana, la soluzione sia condivisibile e auspicabile. Non ci sono alternative: le condizioni sono drammatiche dal punto di vista finanziario e il tempo sta per scadere. In queste condizioni qualsiasi gruppo privato arriverebbe per fare un affare e farsi regalare un impianto che vale, a regime, 25 miliardi». Non sono noti di dettagli dell’offerta giunta da Arcelor Mittal al commissario Piero Gnudi – che ha tempo fino a Natale per dare una risposta – ma è stata considerata irricevibile sia per l’offerta economica sia per i tagli di posti di lavoro. 

Un’azienda strategica?

Scommettere sulla soluzione del caso Ilva potrebbe essere un errore. A mettere in fila tutti i dubbi è Gianfranco Tosini di Siderweb: in primo luogo, spiega, la Cdp può interveniire solo in aziende che siano in equilibrio finanziario e abbia prospettive di sviluppo, cosa che non è il caso dell’Ilva. Si dovrebbe quindi creare una newco (a parte dalla bad company), «che abbia però un apporto vero di capitali privati». Se poi si modificasse la legge Marzano, «bisognerebbe dimostrare che l’Ilva è strategica. E perché lo è? Perché è l’unica azienda in Italia che produce coil? Siamo in Europa, il coil si produce in Francia. L’Ilva ha già ridotto di due milioni di tonnellate la produzione, non mi risulta che le aziende non abbiano trovato acciaio, visto che c’è una sovraproduzione. Il governo può considerare strategico salvare 12mila posti di lavoro, ma quello è un altro film».

Tosini, Siderweb: “Perché l’Ilva va considerata industriale? Le aziende italiane si possono rifornire in Francia”

Poi c’è il problema del piano industriale. Oggi non c’è e non è chiaro come potrebbe esserlo quello del gruppo cremonese. «Arvedi – continua Tosini – ha un processo di produzione opposto a quello dell’Ilva. Se usasse la sua tecnologia basata sul rottame come combustibile, manderebbe in rovina la siderurgia italiana, perché c’è scarsità di rottame. Né è chiaro come potrebbe fare un uso diverso». Il paragone con la Ferriera di Trieste non reggerebbe perché in quel caso si produce ghisa, che serve direttamente alla produzione di Arvedi. Quello che è sicuro, per Tosini è che «non ha i soldi». Gli ultimi due dubbi riguardano la possibilità che l’Unione europea permetta l’ingresso di Cdp all’Ilva. Possono essere considerati risparmi privati di chi ha i depositi nelle Poste – come ha ribadito a Milano il 2 dicembre l’ad di Cdp Giovanni Gorno Tempini – o equiparati a un aiuto di Stato? Infine, «senza un piano un piano industriale, chi mi assicura, come cittadino, che l’Ilva possa tornare in utile in tre anni?».

Problemi che, peraltro, nella visione di Tosini non si risolverebbero neanche con il ritorno in campo di Arcelor Mittal, «che ha perdite annue per due miliardi». «Al punto in cui siamo arrivati – conclude – è difficile uscire dalla vicenda di Taranto senza le ossa rotte, senza che qualcuno ci lasci le penne».