Stati vegetativi, 3mila persone invisibili

Stati vegetativi, 3mila persone invisibili

Basta un attimo. Un minuto prima sei sul motorino con il tuo fidanzato. Un minuto dopo sei in una stanza d’ospedale con la testa fasciata e in stato vegetativo. Puoi aprire gli occhi e chiuderli, puoi anche piangere, in teoria, ma non puoi interagire con l’ambiente esterno. Il paziente è sveglio, ma è cosciente solo in minima parte. È una condizione clinica “sospesa”, così la chiamano, in cui una persona viene tenuta in vita da sondini per mangiare e bere. Lo stato vegetativo non va confuso con il come. Nel coma sia la vigilanza sia la coscienza sono spenti. Per gli stati vegetativi fino a pochi anni fa si credeva che il paziente fosse sveglio ma non cosciente, ma dagli ultimi studi è emerso che in alcune fasi può esistere uno stato, seppur minimo, di coscienza.

Marta era una di “loro”, rimasta ferma e immobile nel letto di una struttura di recupero per un mese dopo un incidente in motorino nel centro di Milano. Il prete le aveva anche dato l’estrema unzione, racconta. Poi però si è svegliata, con qualche problema di memoria e i muscoli deboli, tutti da recuperare. Oggi, a distanza di più di dieci anni, appunta ancora su un foglio le cose importanti per non dimenticarle, ma per il resto conduce una vita normale. Insieme al suo cane, che l’ha aiutata a tornare a muoversi. E si è anche laureata, grazie a un professore che le ha permesso di dare gli esami spacchettati, in modo da dover immagazzinare meno informazioni alla volta.

Ma non tutti hanno la storia di Marta. I traumi come il suo, dicono i medici, sono i più facili da recuperare. In tanti nello stato vegetativo restano invece per anni, e forse non si sveglieranno mai. Si può rimanere immobili in un letto anche per 20 anni, tanto che alcuni pazienti sopravvivono agli stessi parenti che li curano. Al trauma cerebrale, se grave, può seguire uno stato di coma, che può portare al recupero o alla morte. E a volte è il coma che può evolvere in stato vegetativo. Ma più si protrae lo stato vegetativo, minori sono le possibilità di recupero. 

In Italia, secondo uno studio del Gracer, Gravi cerebrolesioni Emilia Romagna, una delle regioni più all’avanguardia nella cura e nell’assistenza, le persone in stato vegetativo sono tra le 2.800 e le 3.300 (anche se uno studio epidemiologico ancora non esiste). Ogni anno circa 200 persone entrano in coma per lesioni cerebrali e per 40 di loro si apre un percorso ospedaliero molto lungo. Almeno 10, dopo il coma, evolvono in uno stato vegetativo o di coscienza minima.

Lo stato vegetativo può durare anche 20 anni, e alcuni pazienti sopravvivono agli stessi parenti che li curano

L’argomento è uno di quelli che scalda e che divide, tra chi crede che quella in un letto sia ancora vita, anche dopo anni di immobilità e piccoli movimenti delle dita, e chi invece pensa invece il contrario. Il caso emblematico, nel nostro Paese, è stato quello di Eluana Englaro, la ragazza di Lecco rimasta in stato vegetativo permanente per 17 anni a causa di un incidente in auto che le aveva causato gravi danni alla corteccia cerebrale. Dopo undici anni di battaglie nei tribunali, quindici sentenze della magistratura italiana e una della Corte europea, il 9 febbraio del 2009 Eluana è morta. Tre giorni prima i medici avevano sospeso l’alimentazione e l’idratazione che la tenevano in vita, nonostante l’opposizione dell’allora governo Berlusconi e le proteste dei cattolici. Tanto che a novembre 2010 lo stesso esecutivo, su proposta del ministro della Salute Ferruccio Fazio, istituì per il 9 febbraio, giorno della morte di Eluana Englaro, la Giornata nazionale degli stati vegetativi. Che si è celebrata nel 2011, nel 2012 e nel 2013 nelle stanze del ministero della Salute. Quest’anno invece non era prevista alcuna celebrazione, provocando il disappunto di tanti

Il problema principale resta l’assistenza delle persone in stato vegetativo, e dei loro familiari, che molto spesso si fanno carico della cura dei propri cari. La riabilitazione è lunga e prevede stimolazioni motorie, ma anche affettive e cognitive. Per questo l’accudimento occupa i parenti dalle tre alle sei ore al giorno. La loro presenza, in alcuni casi, si rivela fondamentale per il risveglio. Tanto che alcuni preferiscono licenziarsi. Ma non tutti possono permetterselo, visto che si calcola che per accudire un paziente in stato vegetativo si spendono anche 3.500 euro al mese. E il carico, di lavoro ed emotivo, al di là della condizione economica, è alto. Tanto che il 60% dei cosiddetti parenti, in base a una ricerca condotta dal ministero della Salute, manifesta un elevato livello di tensione, ansia e apprensione, soprattutto se il paziente viene curato a casa.

Il problema è che, comunque la si pensi, in Italia, oltre che indire in maniera provocatoria la Giornata nazionale degli stati vegetativi, si è fatto poco altro. Di finanziamenti ad hoc neanche l’ombra. L’unico calderone in cui pescare per le Regioni resta sempre il Fondo per le non autosufficienze, che quest’anno dovrebbe toccare la quota “record” di 400 milioni, da spartire tra tutti i non autosufficienti, dagli anziani con problemi di mobilità fino a chi vive tramite la ventilazione meccanica. In Italia una definizione giuridica univoca della non autosufficienza ancora non esiste. E nessuno sa quante siano le persone interessate. Le ricerche dicono dai 2 ai 4 milioni. Una forbice ampia. Così ogni regione si prende la sua quota e fa a modo suo. E dove ci sono i buchi di servizi, sono i familiari a farsi carico di tutto.

L’assistenza dipende dalle Regioni. In alcune parti d’Italia le famiglie sono lasciate allo sbando, senza i servizi minimi

Nel 2011 la Conferenza unificata Stato Regioni aveva stilato delle Linee guida di indirizzo per l’assistenza alle persone in stato vegetativo e di minima coscienza, con l’obiettivo di ridurre al minimo la permanenza del paziente nei reparti di rianimazione favorendo il trasferimento in ambienti più adeguati soprattutto al benessere delle famiglie. Le Regioni avrebbero dovuto provvedere sia all’assistenza domiciliare integrata sia all’assistenza residenziale nelle strutture extraospedaliere. Le stesse linee guida prevedevano la creazione in ciascuna regione delle cosiddette Suap (Speciali unità di accoglienza permanente), destinate ad accogliere le persone in stato vegetativo quando non è possibile accudirle a casa. Le linee guida, chiaramente, non erano finanziate. E a distanza di tre anni, gli standard di cura nelle diverse regioni sono tutt’altro che omogenei.

I finanziamenti variano di regione in regione. La Lombardia, ad esempio, dal 2009 eroga alle famiglie un contributo mensile di 500 euro, e dal 2011 la giunta Formigoni ha istituito un voucher tra i 100 e i 180 euro al giorno, cifre che corrispondono alle tariffe giornaliere erogate dai familiari alle strutture che si prendono cura delle persone in stato vegetativo. In Calabria, con il progetto Oberon, solo nel 2013 è stata attivata la sperimentazione per l’assistenza di pazienti cronici nell’Istituto Sant’Anna di Crotone, oltre all’ospedalizzazione a domicilio con sistemi di telemedicina. «Non esiste una uniformità di standard in tutto il Paese», racconta Fabio Cavallari, autore del libro La vita in una stanza. Gli “stati vegetativi” non esistono (Itaca Edizioni). «I costi dello Stato per persone in stato vegetativo variano considerevolmente da regione a regione». E «ci sono situazioni in parte del Paese dove ai pazienti e alle famiglie viene negata l’assistenza domiciliare e gli ausili indispensabili per una qualità della vita compatibile con la loro disabilità. Per queste famiglie, oltre al carico assistenziale e a quello economico, si aggiunge anche quello emotivo, con rischi di gravi depressioni. Ecco perché sarebbe sempre bene rifiutare le schematizzazioni, ecco perché non esistono “gli stati vegetativi”, ma persone e famiglie che rischiano di vivere il dramma dell’abbandono, dell’incomprensione, della solitudine». I familiari, racconta, «sono spaventati dalla cronicità della malattia e dai cambiamenti radicali che la presenza di un invalido può rappresentare rispetto alla normale quotidianità. Il pericolo principale per le famiglie che si trovano all’improvviso ad affrontare eventi così traumatici è proprio quello della solitudine e delle incomprensioni, che talvolta provocano anche spaccature interne, contrasti, lacerazioni. In assenza di una rete di protezione che aiuti a reggere la sfida, le famiglie rischiano di sfasciarsi. Quando in una famiglia accade un evento così traumatico, non è solo una persona ad ammalarsi ma un intero nucleo famigliare».

Cavallari ha raccolto nel suo libro diverse storie di pazienti e famiglie all’interno di due nuclei specializzati nella cura delle persone in stato vegetativo nei dintorni di Bergamo. Il sottotitolo del suo libro, “gli stati vegetativi non esistono”, «è una provocazione per non lasciarsi intrappolare da barriere schematiche o tentazioni riduzioniste», spiega. «Con l’espressione “gli stati vegetativi” scompare di fatto la persona per lasciare spazio alla patologia. Questo tipo di riduzionismo, però, contrasta inevitabilmente con il vissuto reale e concreto di chiunque si trovi a entrare in un reparto di una struttura di accoglienza, assistenza e riabilitazione. In quelle stanze, nell’androne di ricevimento, nella sala del tè per i parenti o nei giardini antistanti gli ingressi, non esistono “gli stati vegetativi”, ma persone in carne e ossa. Danilo, Fulvia, Matteo, uomini e donne, con storie alle spalle, figli o mogli che rispecchiano le loro esistenze. Non esistono patologie, ma individui, ognuno con la propria irrinunciabile unicità. La condizione di stato vegetativo può trovare una sua esplicitazione dentro una formula medica, ma nessun paziente è uguale a un altro».