Tutto comincia con il tweet premonitorio di Fuat Avni, pseudonimo della misteriosa talpa annidata nei gangli dell’establishment turco, che già s’era distinto in passato per aver rivelato in anteprima future operazioni di polizia. E proprio su twitter, suo terreno privilegiato di divulgazione di roboanti indiscrezioni, a pochi giorni dal blitz, annuncia, in una serie di twitter numerati, una nuova soffiata: una maxi retata di 400 persone di cui 150 giornalisti vicini alla confraternita di Fethullah Gülen, diventato da alleato a bestia nera di Erdoğan dopo il lancio di una serie di inchieste anticorruzione in cui si sono trovati implicati l’entourage dell’allora primo ministro (ed oggi presidente della Turchia).
Fuat, la cui identità rimane un mistero, sbaglia di poco. Il giorno (aveva predetto il venerdì 12 Dicembre) ed il numero di giornalisti arrestati (32 di cui 5 poi rilasciati invece di 150) ma la retata effettivamente avviene. Domenica 14 Dicembre la Turchia si sveglia con una maxi-operazione della polizia compiuta contemporaneamente in 13 città. L’antiterrorismo sbarca negli uffici del principale e più diffuso quotidiano turco Zaman (950.000 copie vendute al giorno) e negli uffici del presidente del gruppo televisivo Samanyolu Tv, Hidayet Karaca, anch’essa nell’orbita della confraternita. Il direttore della pubblicazione Ekrem Dumanli, diversi cronisti, il presidente della televisione Samanyolu Tv, produttori televisivi, attori e diversi responsabili delle forze di polizia vengono messi in stato di fermo ed alcuni arrestati. In tutto 32 persone, di cui 5 poi saranno rilasciate. Sono tutti accusati di far parte di un’associazione criminale, uno «Stato parallelo» con lo scopo di minare la sovranità dello Stato e rovesciare il governo dell’Akp. Che succede?
«Sembra che siamo di fronte ad una nuova fase nella lotta di potere tra governo e gulenisti – dice a Linkiesta Emre Kizilkaya, redattore esteri di uno dei principali quotidiani turchi, l’Hürriyet – purtroppo tutto ciò ci ricorda da vicino le lotte di potere del recente passato, in cui sono sempre i giornalisti ad andarci di mezzo. Per esempio la lotta di potere tra militari e laici contro gli ex alleati AKP e Gülen che si è risolta con l’arresto di più di 100 giornalisti. Spero che i giornalisti arrestati vengano liberati prima possibile e che questo vergognoso numero non cresca ulteriormente nei giorni a venire». Proprio qualche giorno fa era stato il Nobel Orhan Pamuk (lui stesso vittima di censura nel 2005 in virtù dell’articolo 301 del codice penale turco per le sue dichiarazioni a mezzo stampa sul genocidio armeno) a lanciare l’allarme: «in Turchia regna un clima di paura ed anche i giornalisti vicini all’establishment rischiano», aveva detto in una rara intervista proprio all’Hürriyet. «Orhan Pamuk ha ragione – dice Emre Kizilkaya – ma si è svegliato troppo tardi, così come molti europeisti. Alla fine molti di loro hanno supportato con forza l’attuale governo mentre altri osservatori facevano notare che c’era una concentrazione eccessiva di poteri nelle mani di una sola persona. Molti difensori della democrazia in Turchia avrebbero dovuto protestare o fare di tutto affinché non si avverasse una tale concentrazione di poteri in quanto distrugge il fragile equilibrio su cui si basa la Turchia e porta a catastrofiche conseguenze sulla stampa, così come è avvenuto in passato».
Ed i rapporti Akp-Gülen ? Per capire cosa sia avvenuto tra i due ex alleati occorre fare un passo indietro. Lo scopo di mantenere il potere politico in Turchia aveva unito nel tempo la Comunità e l’Akp in un’alleanza di convenienza. Negli anni l’Akp aveva fornito la sua struttura organizzativa, il suo patrimonio politico di partito al governo che aveva permesso alla Cemaat di piazzare suoi uomini in ruoli chiave all’interno della burocrazia ma anche di ricevere adeguata protezione politica. Dall’altro lato la Comunità aveva fornito all’Akp soldi, il supporto dei media e ha garantito la mobilitazione degli elettori. Un supporto non da poco per l’Akp quello di una comunità religiosa, la Cemaat, che può contare su milioni di seguaci in tutto il mondo, scuole in 140 paesi, una banca, un impero mediatico, ospedali, una compagnia d’assicurazione e un’università, l’Università Fatih d’İstanbul oltre che Zaman, il più diffuso quotidiano di Turchia). È stato anche grazie alla potenza di fuoco di questa comunità, divenuta nel corso degli anni una sorta di “setta transnazionale”, che Erdoğan è riuscito a costruire le basi del suo successo politico e a rimanere in sella questi anni sfuggendo a diversi tentativi di rovesciamenti manu militari più o meno soft.
Ora tra l’Akp e la Comunità Gülen è in atto una guerra sotterranea e senza esclusione di colpi. L’arresto di decine di personaggi della nomenclatura per un affare di tangenti e corruzione nel Dicembre del 2013 aveva provocato infatti la reazione veemente dell’establishment del premier che per tutta risposta ha defenstrato centinaia di dirigenti e funzionari di polizia. Dall’inizio di quell’inchiesta, che punta al cuore dell’establishment dell’Akp, l’allora premier aveva risposto con una serie di misure politiche e amministrative con lo scopo di affossare uno scandalo che resta, nonstante tutto, di dimensioni bibliche. Al vaglio della magistratura decine di appalti legati a transazioni fraudolente, concessioni e tangenti nelle quali sarebbero implicati anche alcuni membri della famiglia di Erdogan, uno scandalo quantificato in 100 miliardi di dollari. Si tratta di trasferimenti di terreni di un valore di diversi miliardi di dollari a prezzi stracciati, tangenti a vantaggio di diversi uomini d’affari turchi in cambio d’informazioni preziose che rendevano possibile l’acquisto facile di terreni e l’edificazione selvaggia d’immobili. Al centro dello scandalo, l’istituzione pubblica che gestisce lo “sviluppo” degli alloggi, altrimenti nota come Toki. Armata di nuovi poteri quest’ agenzia, in collaborazione con i comuni e diversi investitori privati, ha completamente rimodellato il paesaggio urbano della città d’Istanbul e di altre città turche. Un’altro filone dell’inchiesta riguardava invece una vasta rete di corruzione legata al riciclaggio di denaro sporco proveniente dall’Iran e transitato attraverso la Halkbank. Dopo le purghe del Dicembre del 2013 – che hanno portato al siluramento di centinaia di poliziotti – a Gennaio del 2014 vengono rimossi anche i capi della polizia di 16 province tra cui importanti centri come Ankara, Smirne, Antalya e Diyarbakir. Secondo l’Hürriyet le purghe compiute tra Dicembre 2013 e Gennaio 2014 in tutta la Turchia hanno portato al siluramento o al trasferimento di ben 1700 persone. Come aveva denunciato all’epoca l’editorialista Mehmet Tezkan dalla colonne del Milliyet, la polizia nazionale turca, dopo queste operazioni, «è stata letteralmente sventrata».
E la stampa? Nel primo semestre del 2014 sono ben 319 i giornalisti che si sono ritrovati a spasso per diversi motivi legati alle proprie attività di giornalismo. Ed in un contesto di paura in cui è sempre più difficile fare il proprio mestiere, i giornali chiudono uno dopo l’altro ed il pluralismo dell’informazione viene ogni giorno minacciato. Dopo la chiusura del quotidiano Karsi Gazete e del canale televisivo Arti1, anche il quotidiano nazionale SoL (organo di stampa del Partito Comunista di Turchia) ha sospeso la sua pubblicazione cartacea e così pure il quotidiano nazionale Radikal oggi sopravvive solo online. Non è un caso se la Corte Europea dei Diritti Umani (ECHR) ha condannato a più riprese la Turchia per aver violato l’articolo 10 della Convenzione Europea che protegge la libertà di espressione. Fare giornalismo in Turchia è molto difficile oltre che pericoloso. Non a caso ritorna in auge un dato che resta emblematico di un grande paese che bussa alle porte dell’Europa. Da quando l’AKP è in sella, ovvero nel lontano 2002, la Turchia è scivolata dal 99esimo al 154esimo posto per quanto riguarda il rispetto della libertà di stampa (World Press Freedom Index). Forse ha ragione il redattore esteri di Hürriyet a dire che Orhan Pamuk si è svegliato un pò troppo tardi.