Matteo Renzi ha forse ragione nel definire il Jobs Act una «rivoluzione copernicana», ma che confusione. Non è questione di benaltrismo, intendiamoci. Il Jobs Act potrà creare nuova occupazione, a condizione che la riforma sia completata e alla svelta. Ci sono infatti ancora troppe contraddizioni da eliminare e, una volta fatto il primo passo, è importante portare rapidamente a conclusione il cammino intrapreso. Non è pensabile che, nelle condizioni in cui si trova l’Italia del 2015, sia sopportabile un processo di transizione che duri vent’anni, come è accaduto per la riforma della pensioni, iniziata con Dini nel 1995 e terminata – si spera – con la Fornero nel 2012.
La prima grande fonte di confusione riguarda l’ambito di applicazione della nuova normativa sul contratto a tempo indeterminato e quindi sul licenziamento. Si applica solo ai dipendenti privati o anche ai dipendenti pubblici? Il Senatore Pietro Ichino, che è il relatore della Commissione Lavoro ed è uno degli estensori del decreto attuativo, ha affermato che si applica anche ai dipendenti pubblici e ha definito la Ministra Marianna Madia un’ aliena per non averlo capito. Deve esserci stata un’invasione marziana a Palazzo Chigi, visto che anche il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha confermato le parole della Madia. Non bastasse, lo stesso Ichino ha invitato il Premier a dare il benservito a Poletti con l’accusa più o meno velata di tentato sabotaggio nei confronti del Jobs Act.
Quale che sia l’interpretazione autentica che il governo darà al suo stesso documento, sarebbe paradossale che per i dipendenti pubblici continuasse a valere l’inamovibilità, mentre per i dipendenti privati valgono le leggi del libero mercato. Anche perché di enti soppressi (le Province e il Senato) e in dissesto (vari Comuni) o in ristrutturazione (qualche migliaio di municipalizzate) il settore pubblico è disseminato. Così come sono parecchi i professori universitar o i primari che pur avendo vinto un concorso hanno una produttività così bassa da rendere necessaria l’applicazione dei nuovi strumenti che il Jobs Act mette a disposizione per la risoluzione o la ristrutturazione del rapporto lavorativo.
La seconda fonte di confusione è l’ennesima segmentazione che si crea nel mercato del lavoro. Il nuovo contratto a tempo indeterminato si applica infatti ai soli neo-assunti. La cosa potrebbe essere (temporaneamente) accettabile se il Jobs Act riformasse i soli licenziamenti individuali. Ma non è così. Sembra che il Jobs Act si estenda anche ai licenziamenti collettivi. Questo significa che si possono creare situazioni discriminatorie, a mio parere incostituzionali ed eticamente inaccettabili, tra “nuovi” e “vecchi” lavoratori nei casi di grave difficoltà aziendale. Per l’ufficio del personale e per i sindacati che dovranno gestire le situazioni di crisi sarà un rebus trovare una soluzione che non sia discriminatoria nei confronti dell’una o dell’altra tipologia di lavoratori.
La terza fonte di confusione deriva dal fatto che la nuova normativa si applica a tutti i nuovi contratti a tempo indeterminato, sia che si tratti di un lavoratore alla prima occupazione sia che si tratti di un lavoratore anziano che cambia occupazione. Al di là del caso di chi sceglie volontariamente di cambiare lavoro e quindi può valutare la convenienza relativa della nuova offerta, questo rischia di bloccare tutte le ristrutturazioni aziendali dove i lavoratori terminano il rapporto con la vecchia azienda e vengono riassunti dalla nuova. Gli esempi sono tantissimi, soprattutto nei grandi gruppi, nei consorzi e nelle società di servizi e in caso di acquisizioni, fusioni, cessioni di rami d’azienda. Come verranno gestite e a quale costo queste operazioni, se i lavoratori coinvolti perdono la tutela dell’art.18? L’entusiasmo della Confindustria per il superamento dell’articolo 18 potrebbe rapidamente raffreddarsi se il Governo non si inventa qualcosa per non bloccare i processi di riorganizzazione aziendale.
Un’altra fonte di confusione riguarda il regime differenziato per le aziende con meno di quindici dipendenti. Per loro gli indennizzi rimangono una frazione di quelli delle aziende di maggiori dimensioni. Non solo. Se un’azienda aumenta di dimensione grazie a nuove assunzioni, applicherà le regole del Jobs Act a tutti i suoi lavoratori, vecchi e nuovi. Si capisce la “buona” intenzione del governo, ma il fatto di non volere cambiare l’art.18 per tutti creerà situazioni paradossali, contrarie allo spirito del mercato unico europeo che non prevede la creazione di contesti competitivi disomogenei. Potremmo infatti avere due aziende della stessa dimensione. Una, di vecchia costituzione, sottoposta ancora al vecchio regime dell’art.18 e l’altra, più giovane o più “furba”, che invece ha tutta la sua forza lavoro sotto il regime del Jobs Act.
Senza entrare in altri aspetti tecnici, la riforma del mercato del lavoro contenuta nel Jobs Act è coraggiosa nelle intenzioni ma troppo timida nell’applicazione. La confusione che si viene a creare è sopportabile per un periodo molto limitato di tempo. E’ impensabile che la riforma del mercato del lavoro possa entrare a regime per vie “naturali”, cioè attraverso il pensionamento dei dipendenti attualmente coperti dall’art. 18. Fare previsioni in economia e in politica è rischiosissimo, ma siamo a Capodanno. Vogliamo scommettere che entro due anni al massimo dovremo affrontare un secondo round di riforme “epocali” del mercato del lavoro?