TaccolaTutti i punti da chiarire sull’Ilva di Stato

Tutti i punti da chiarire sull’Ilva di Stato

L’Ilva torna allo Stato, seppur a tempo. Per 18-36 mesi, ha confermato il 24 dicembre il premier Matteo Renzi in conferenza stampa, il commissariamento governativo, che era arrivato alla metà della sua durata prevista (18 mesi su 36), lascia spazio all’amministrazione straordinaria. È l’ammissione di una sconfitta, non essere stati in grado di trovare un partner o un acquirente che fosse al contempo solido, con un livello di managerialità all’altezza della complessità della sfida, in grado di garantire l’occupazione e soprattutto il pieno rispetto delle prescrizioni ambientali previste dall’Aia. E che fosse, inoltre, disposto ad affrontare richieste di risarcimenti, in particolare per danni ambientali, che al momento sono già stimabili in quattro miliardi di euro.

Le due manifestazioni di interesse arrivate finora non hanno soddisfatto tutti i criteri. Quella di Arcelor-Mittal, principale produttore mondiale dell’acciaio, soddisfava i criteri di solidità ma sollevava dubbi sui livelli di produzione: il gruppo ha già importanti centri di produzione in Europa (in Francia, ma anche nell’Est) e produce già troppo in un mercato caratterizzato, almeno in questo ciclo economico, da sovrapproduzione, sia a livello mondiale che continentale. Sarebbe entrato con il supporto del gruppo Marcegaglia, che dell’Ilva è uno dei principali clienti (Emma Marcegaglia, con il cappello di presidente dell’Eni, è anche fornitore di gas). Offerte ufficiali non sono state rese note, ma indiscrezioni hanno parlato di condizioni irricevibili da parte del commissario governativo.

La seconda manifestazione di interesse, quella del gruppo Arvedi, italiano con sede a Cremona, aveva problemi di tipo finanziario. Il gruppo è relativamente piccolo e ha una situazione finanziaria che non permetteva di sobbarcarsi i costi dell’operazione, stimabili tra i due e i tre miliardi di euro tutto compreso. Per questo si era parlato di un intervento di Cassa Depositi e Prestiti, attraverso il suo Fondo Strategico, nel capitale di Arvedi, perché questa poi potesse rilevare l’Ilva. Ma i soldi non sarebbero stati probabilmente sufficienti. Arvedi, inoltre, per quanto abbia una capacità di innovazione riconosciuta, che le è valsa l’acquisto dello stabilimento ex Lucchini di Trieste negli scorsi mesi, aveva dei limiti. Come ha ricordato Massimo Mucchetti, presidente della Commissione industria al Senato, nell’audizione del 20 ottobre del commissario all’Ilva Piero Gnudi, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul Gruppo Ilva, «con tutto il rispetto e quasi l’affetto per il cavaliere (Giovanni) Arvedi, si parla di una società padronale», con al comando un illuminato industriale di 77 anni che non ha ancora delineato come sarà la gestione futura dell’azienda. 

Mentre le offerte latitavano o cercavano di prendere l’Ilva a condizioni capestro, i soldi erano finiti. Come ha ribadito più volte anche il commissario Gnudi, per gli stipendi dopo dicembre non c’era alcuna garanzia. I soldi dei gas erano un’altra preoccupazione non da poco, con l’Eni che ha richiesto a dicembre una fidejussione (cioè una garanzia sul debitore da parte delle banche) da 240 milioni per 12 mesi. Il rischio di una sospensione della fornitura di gas era la compromissione della operatività di tutto lo stabilimento. Mancavano poi i soldi per la manutenzione. Lo ha ammesso Gnudi nell’audizione davanti alle commissioni congiunte Ambiente e Attività produttive della Camera: da 3-4 anni i piani di manutenzione non sono stati applicati («perché non possiamo stampare moneta») e questo è stato alla base di una serie di incidenti, il più grave dei quali è stato l’incendio della scorsa estate alla centrale elettrica, che ha provocato a cascata la riduzione dell’attività degli altoforni, perché la centrale stessa garantisce l’assorbimento dei fumi. Almeno un 20% della produzione è venuto meno, ha aggiunto Gnudi, proprio a causa di tale guasto. Senza il problema alla centrale elettrica i conti, ha aggiunto, sarebbero stati molto vicini a un pareggio. Invece la produzione del 2014 si fermerà a circa 4 milioni di tonnellate, contro i 9-11 di potenziale. A pesare, più che gli incidenti, c’è il fatto che il 75% delle aree è tuttora sottoposto a sequestro da parte della magistratura. Così la società perde circa 35 milioni al mese, una cifra che viene comunque considerata in miglioramento rispetto ai 70 milioni della prima parte della gestione commissariale. 

L’audizione del commissario all’Ilva Piero Gnudi alla Camera del 17 dicembre

«Ci sono momenti nella vita di un Paese in cui un’amministrazione deve avere il coraggio di prendere delle responsabilità – ha detto Renzi nella conferenza stampa della vigilia -. In cui l’intervento pubblico è fondamentale per salvare le sorti di un polo industriale che è il cuore dell’industria del Mezzogiorno ma che è anche molto di più. È la grande scommessa dello sviluppo di quell’area. Questo tipo di intervento deve essere fatto con la consapevolezza che non può essere fatto a discapito dell’ambiente. Non ci sono modifiche al regime di autorizzazione di impatto ambientale (Aia). Credo che sia l’atto più emozionante del Cdm. La responsabilità ci chiama e noi rispondiamo prendendoci in faccia il vento che serve, prendendoci noi il compito di rimediare gli errori fatti in passato in quella città. Taranto merita che ci sia un grande, diretto, investimento da parte dello Stato».

Molto di più per ora non si sa, perché oltre al comunicato stampa (che anticipa anche interventi per la città, tra cui 30 milioni da girare alla Regione Puglia per la costruzione di un centro di ricerca dedicato ai tumori, soprattutto infantili) non c’è ancora il decreto. Si stanno facendo le ultime modifiche, ha aggiunto Renzi, e dovrebbe essere presentato il 29 dicembre. I dettagli saranno fondamentali, perché le ipoteche che gravano sull’operazione “Ilva di Stato” sono ancora molte. La prima è quella davvero fondamentale e chiama in causa Bruxelles. 

Europa

La storia recente del rapporto tra Europa e acciaio italiano non lascia troppo tranquilli. Basta un nome: Ast di Terni, che la Thyssenkrupp aveva trovato il modo di vendere, non ritenendola più strategica, al gruppo finlandese Outokumpu. L’Antistrust europea vietò tuttavia l’operazione, perché si sarebbe creata una concentrazione eccessiva nel settore dell’acciaio inox. Da quel niet derivarono molti dei problemi visti nell’ultimo anno e risolti con una soluzione che congela la situazione senza danni ma non dà troppe garanzie nel lungo termine. 

In questo caso la situazione è diversa. Non c’è di mezzo l’eccesso di concentrazione ma un intervento pubblico che potrà essere considerato aiuto di Stato. Che questa sia la prima preoccupazione da parte di tutti, anche dentro il governo, lo ha detto ancora una volta Renzi. In un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica Rtl 102.5 ha detto: «Stavamo facendo una discussione sul decreto per Taranto e i dirigenti del governo hanno detto: “attenzione perché potrebbe esserci l’accusa dell’Unione europea di aiuti di Stato”». Ha aggiunto: «con tutti i morti di tumore che ci sono stati, potrete permettermi di mettere i soldi per riqualificare l’ambiente. Io trovo che se l’Europa vuole impedire di salvare i bambini di Taranto ha perso la strada per tornare a casa e comunque io sono fedele agli impegni che ho con i bambini di Taranto molto più che non con gli impegni con qualche regolamento assoluto Ue».

Ma a Bruxelles potrebbero vederla molto diversamente. Come ha ricordato la Repubblica, la Direzione generale Concorrenza della Commissione ha inviato, lo scorso 20 ottobre, una lettera di otto pagine al governo italiano – dal titolo eloquente “Presunti aiuti a Ilva”. Si chiedevano chiarimenti su interventi infinitamente più leggeri di quelli che si prospettano adesso, dal trasferimento di fondi sequestrati dalla magistratura al prestito-ponte concesso all’azienda, passando per le bonifiche di aree inquinate con fondi pubblici. 

Il 18 dicembre c’è stato un vertice tra il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e il neo-commissario europeo all’Industria, Mercato interno e Piccole e medie imprese, Elzbieta Bienkowska. Si è parlato del possibile utilizzo dei fondi del “piano Juncker” per l’Ilva. Quasi sicuramente si è parlato del possibile intervento di Bruxelles sul caso. In un’intervista a La Stampa la Bieñkowska ha detto parole interpretabili in vari modi. «Spetta alle capitali – ha detto – definire le scelte della politica industriale nazionale e non è certo nostra responsabilità quella di dir loro cosa fare». Tuttavia, ha aggiunto, «qualunque mossa deve avvenire nel rispetto delle regole della Concorrenza, non ci devono essere aiuti di Stato illegali: il nostro compito è vegliare su questo». 

Una delle linee del governo italiano potrebbe essere quella di dimostrare che, essendo lo Stato ad avere inquinato fino all’arrivo dei Riva, nel 1995, spetta a lui anche la fase di risanamento e rilancio. 

A dare una prospettiva sulla questione ci pensa Massimo Mucchetti, senatore presidente della Commissione industria al Senato. «Non mi preoccuperei più di tanto dell’Europa – dice a Linkiesta -. Su questo fronte il mondo della siderurgia in Europa ha incrociato il mondo dello Stato in mille modi. Al di là di questo, finché non c’è un decreto è complicato ipotizzare problemi legati alla giurisprudenza europea. I due principi cardine in Europa sono che l’Ue è indifferente alla natura pubblica o privata della proprietà delle imprese; è invece sensibile alla tutela della concorrenza».

Il quest’ottica «il versamento di denari in conto capitale dallo Stato a un’impresa non è di per sé un aiuto di Stato – continua Mucchetti -. Dipende dalle modalità, dai vincoli, dalle finalità». Uno dei punti chiave sarà dimostrare che i soldi che mette lo Stato non li avrebbe messi l’impresa. Inoltre, «se c’è una competizione tra soggetti, ci può essere anche un concorrente nelle vesti dello Stato italiano». 

Gli interventi ambientali

Le prescrizioni dell’Aia prevedono interventi per 1,8 miliardi di euro, per le sole aree industriali. Come ha più volte sottolineato il commissario Gnudi, la cosa importante è il rispetto delle emissioni, ma ci possono essere delle modifiche a come raggiungere gli obiettivi. Questo è stato uno dei punti chiave nelle discussioni con i possiibli acquirenti, negli scorsi mesi.

Il governo ha anticipato, presentando il decreto alla Vigilia di Natale, che metterà sul piatto 1,2 miliardi di euro. Mancano dunque 600 milioni? No. Perché 600 milioni è la cifra già impegnata finora per gli interventi. Rispondendo alle domande dei deputati delle commissioni Ambiente e Attività produttive lo scorso 17 dicembre, il sub-commissario per i temi ambientali, Corrado Carrubba, ha precisato che 250 milioni sono già usciti dalle casse dell’Ilva e 350 milioni sono impegni di competenze per ordinativi in corso. Ha poi dato dei dettagli sugli interventi strutturali: il 35% dei nastri traportatori sono stati coperti; sono stati chiusi diversi edifici; è stata chiusa una conferenza dei servizi istruttoria al ministero dell’Ambiente per la copertura dei parchi minerari. La legge prevede che l’80% delle prescrizioni sia completa entro il luglio del 2015 e il 100% entro l’estate del 2016. A oggi è stato ottemperato il 75% delle prescrizioni. Ma sono state portate avanti le parti più normative, che richiedevano minori esborsi. La partita vera sull’ambiente inizia ora. Su questo fronte, ha detto Carrubba, c’è un piano preciso, ma ci sono anche incognite legate al fatto che alcuni macchinari dovranno essere costruiti ad hoc. 

Due buone notizie: con i livelli di produzione attuale, molto ridotta, hanno sottolineato Carrubba e Gnudi, i livelli di inquinamento dell’aria sarebbero nella norma, entro i limiti europei. La seconda: al termine dei lavori l’Ilva di Taranto sarà una best practice a livello europeo, ossia l’impianto del suo tipo meno inquinante. Non si può prescindere da questo, hanno detto commissario e sub-commissario, perché la popolazione di Taranto ha accettato il proseguimento dell’attività in cambio di garanzie precise sulla salute pubblica. 

I soldi dei Riva

La cifra di 1,2 miliardi di euro che lo Stato pensa di impiegare per le operazioni di riqualificazione ambientale non è casuale. Corrisponde ai soldi della famiglia Riva che attualmente sono sotto sequestro. Una sentenza del tribunale di Milano ha stabilito che quei fondi sono stati distratti dalla famiglia Riva all’Ilva. «Quelli sono soldi dell’Ilva», ha sintetizzato il commissario Gnudi.

ll 29 ottobre il gip di Milano Fabrizio D’Arcangelo ha sbloccato i soldi, sequestrati dalla Procura di Milano nel maggio del 2013 ai fratelli Emilio (morto sei mesi fa) e Adriano Riva e ai due loro consulenti, per trasferirli nelle casse dell’Ilva. I gradi di giudizio non sono conclusi e si attende l’esito del ricorso della famiglia. Come ha sottolineato alla Camera Gnudi, «i soldi non sono di nessuno. I Riva hanno rinunciato all’eredità (di Emilio Riva, morto a 88 anni lo scorso aprile, ndr). Quella era eredità giacente. Il ricordo del fratello di Riva non ha fermato il processo di trasferimento del denaro e avrà valenza solo se alla fine del percorso la Corte Costituzionale riconoscerà che la procedura è incostituzionale». Il riferimento è a una norma di legge (“Legge Terra Fuochi”) che ha agevolato lo sblocco dei soldi dei Riva e che ha agevolato, come ha riconosciuto il commissario Gnudi, l’accesso al prestito ponte da 250 milioni di euro in due tranche concesso dalle banche a partire dalla fine dell’estate. 

Che cosa succederà con i soldi sequestrati? La strada è stata spiegata ancora una volta alla Camera. Degli 1,2 miliardi, 170 milioni sono in Italia, in una banca italiana, di Milano, e sono i più facili da far transitare sul Fondo Unico della Giustizia, che a sua volta potrebbe metterli nel conto capitale dell’Ilva. La parte rimanente sono in Svizzera, presso la banca Ubs. Come è stato precisato durante l’audizione alla Camera da Gnudi, «la Procura di Milano e il governo italiano stanno trattando con le autorità svizzere per far sì che i soldi tornino in Italia. I soldi sono legalmente detenuti in Svizzera da parte di cittadini italiani, perché erano stati scudati». Carrubba ha aggiunto che i soldi «in realtà sono detenuti da banche svizzere ma sono fisicamente trust di diritto delle Isole del Canale britanniche. C’è di mezzo un tema di trust internazionali». 

Sui tempi del versamento di tali soldi non ci sono quindi certezze. Sulla destinazione sì: per legge dovranno essere destinati ai fini di risanamento ambientale. La domanda è: se non arrivassero, c’è un piano B? Ancora una volta Massimo Mucchetti mette le cose in prospettiva. «L’impatto sul conto economico di molti interventi si può ammortizzare in 20 anni. Si può quindi ipotizzare una spesa di 80-90 milioni all’anno». Almeno all’inizio, quindi, lo Stato potrebbe intervenire senza eccessivi traumi. 

Il dissequestro 

Il 75% dell’area industriale dell’Ilva è sottoposto a sequestro. Una volta completate le prescrizioni dell’Aia, quindi nell’estate del 2016, saranno dissequestrate? A buon senso si direbbe di sì, ma il sub-commissario Carrubba alla Camera ha invitato alla prudenza. Sarà la magistratura a decidere, ha detto, e la decisione, oltre ad avvenire sulla base di una dimostrazione concreta del risanamento avvenuto, terrà conto anche delle cause penali che saranno in corso. 

L’intervento dello stato e la bad company

Una volta accantonata l’idea di un intervento del Fondo Strategico di Cassa Depositi e Prestiti in Arvedi perché rilevasse l’Ilva, resta da capire come lo Stato entrerà nella società. Renzi in conferenza stampa ha usato un aggettivo non neutro, ossia “diretto”. Di certo dovrà essere modificata la legge Marzano, che prevede l’amministrazione straordinaria solo in caso di insolvenza (nonostante il forte indebitamento l’Ilva non è mai stata in default). Il primo passo del processo di ri-statalizzazione sarà con tutta probabilità la modifica di tale legge, probabilmente con un decreto entro la fine dell’anno. Sarà stabilito che la Marzano si possa applicare anche alle aziende ritenute di “interesse strategico nazionale”.

Il resto lo ha sintetizzato efficacemente la Gazzetta del Mezzogiorno: «Con questo schema normativo lo Stato entrerebbe attraverso una società pubblica (Fondo Strategico o più probabilmente Fintecna) in una newco che verrebbe finanziata da Cassa Depositi e Prestiti. Alla newco sarebbero poi dati in affitto gli stabilimenti di Taranto mentre la proprietà degli stessi stabilimenti resterebbe in capo alla vecchia Ilva, e quindi ai vecchi proprietari, diventata bad company. Questa avrebbe in carico il contenzioso ambientale con le relativo richieste di risarcimento danni. L’ipotesi dell’affitto fatta dall’attuale commissario straordinario Piero Gnudi durante l’audizione alla Camera permetterebbe un flusso di denaro fra new e bad company per il pagamento dei debiti». Gnudi ha detto che a rimetterci non sarà lo Stato ma i creditori. Non proprio una frase rassicurante. Anche su questo fronte, i contenziosi si prospettano lunghissimi. 

La redditività e il piano industriale

Proprio per la prospettiva di una bad company e new compay, in molti hanno parlato di soluzione simile a quella di Alitalia nel 2008. Lo ha fatto lo stesso Renzi in conferenza stampa, aggiungendo: «Speriamo che vada meglio». Per quanto lo scetticismo sia dovuto in questi casi, ci sono delle differenze tra Alitalia e Ilva. L’acciaieria più importante d’Italia e la seconda d’Europa durante gli anni della gestione pubblica dell’Italsider perdeva molti soldi e fu questo il motivo che portò alla sua privatizzazione all’inizio degli anni Novanta. Come hanno ricostruito articoli di giornale, tra le cause delle perdite c’era un gioco clientelare che portava a pagare troppo i fornitori e fare troppi sconti ai clienti. Durante gli anni dei Riva l’Ilva ha invece guadagnato molti soldi, arrivando ad avere un Ebitda positivo per 1 miliardo, come ha ricordato Gnudi al Senato. Durante la gestione Riva, ha fatto i conti Mucchetti, la famiglia avrebbe guadagnato circa 4 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i soldi attualmente in Svizzera. «Se ne avesse spesi di più per il risanamento ambientale, ne avrebbe guadagnati magari 3, ma oggi la famiglia sarebbe ancora qui senza problemi», ha commentato. Ai mancati investimenti, ha ricordato il presidente della Commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci, hanno contribuito le connivenze con i controllori, sulla cui natura si esprimerà la magistratura. 

Gnudi ha ribadito più volte che l’Ilva è tuttora considerata una delle fabbriche più efficienti a livello europeo (nonostante gli incidenti sul lavoro non siano mancati, anche mortali, l’ultimo qualche mese fa). Con la riparazione della centrale elettrica e in prospettiva con il dissequestro degli impianti, si arriverebbe rapidamente a un risanamento. L’intervento dello Stato potrebbe quindi essere davvero a termine e questo ha il suo peso anche in chiave europea. Per certi versi l’intervento statale renderà più semplice l’accesso ai fondi della Bei, banca europea degli investimenti, che dovrebbero ammontare a 600 milioni di euro sui circa 2,6 complessivi (contando anche i 600 milioni già impiegati nel risanamento, gli 1,2 miliardi dei Riva e i circa 200 milioni di altri fondi statali e regionali). Ci sono comunque dei problemi industriali: nel 2015, probabilmente a marzo, si avvierà lo spegnimento dell’altoforno numero 5, il maggiore dello stabilimento, perché arrivato a 20 anni di vita. Avrà bisogno, ha ricordato Gnudi, di interventi che dureranno 8-10 mesi e che costeranno circa 360 milioni di euro. Significherà avere meno produzione e conti sotto pressione anche per tutto il 2015. 

Il management

Perché il risanamento, oltre che ambientale, sia anche economico, servirà una gestione all’altezza. Piero Gnudi ha annunciato nell’audizione del 17 dicembre alla Camera che con il passaggio da commissariamento governativo all’amministrazione straordinaria considera esaurito il proprio compito. Ha anche aggiunto che la gestione dell’azienda è stata particolarmente complessa anche per la difficoltà a trovare manager di alto livello disposti ad arrivare in una situazione considerata transitoria. Ha aggiunto che la gestione Riva, al netto dei problemi gravi di tipo ambientale, era stata efficiente, anche per la squadra di management legati alla famiglia. Circa 40 erano fiduciari dei Riva, ha detto, che al momento dell’uscita della famiglia hanno lasciato l’azienda. C’era poi la prima linea, che è stata in parte travolta dalle vicende giudiziarie. 

La questione di un elevato livello di managerialità è stata al centro delle riflessioni sui possibili acquirenti degli scorsi mesi e, come si diceva, ha ostacolato la corsa del gruppo Arvedi. Cosa succederà ora? A Taranto circola un nome con insistenza, quello di Andrea Guerra, il manager (che è uno dei soci del Linkiesta, ndr) che ha lasciato da poco Luxottica dopo averla fatta crescere nel mondo, a seguito di contrasti con il patron Del Vecchio. Matteo Renzi, che ne aveva ipotizzato l’impiego di Guerra nella squadra di governo (al momento della formazione dell’attuale esecutivo si diceva potesse divenire ministro dello Sviluppo economico), lo ha poi chiamato a sé come consigliere economico, circa un mese fa. Fin da subito sui giornali si è letto che Guerra avrebbe seguito da vicino varie questioni, tra cui quella dell’Ilva. Se davvero arrivasse, come commissario straordinario, porterebbe il proprio prestigio e potrebbe forse per questo attrarre a sé una squadra efficiente, in grado di far dimenticare la gestione statale dell’epoca del Pentapartito. Ma certamente dovrebbe dimostrare di essere in grado di gestire un business molto diverso da quello precedente e sicuramente non facile. «Quando gli storici dell’economia studieranno il caso Ilva – ha detto Piero Gnudi – troveranno che è stato uno dei più complessi della storia italiana». Per questo il nuovo commissario non sarà solo e, come ha anticipato Renzi il 24 dicembre, il ruolo di commissario dovrebbe essere affidato a una troika di tre gestori. Ma Renzi la parola troika non l’avrebbe mai usata. 

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