Nessun combattimento, nessuna arma tra le mani, ma bagni da pulire e lavori «servili». Lo racconta Majeed, 23 anni, studente di ingegneria, partito dalla città di Kalyan, India, sei mesi fa per raggiungere con altri tre amici le fila dello Stato Islamico in Iraq. Majeed è tornato a casa a fine novembre ed è stato arrestato per cospirazione finalizzata ad atto terroristico. Gli jihadisti dell’Isis, ha raccontato agli agenti della National Investigation Agency (Nia), considerano tutti gli indiani troppo deboli per combattere. E quindi li relegano a incarichi meno eroici. Ma la storia di Majeed non è la sola. La disillusione ha colpito anche altri combattenti partiti da Europa, Usa e altre parti del mondo per unirsi alla guerra santa dei gruppi islamisti attivi tra Siria ed Iraq. I Foreign Fighters iniziano ad aprire gli occhi, e una volta tornati a casa raccontano quel che si cela dietro l’immagine terribile e grandiosa allo steso tempo costruita ad arte dai miliziani.
«Non c’era nemmeno una Guerra Santa, e nessuno dei precetti contenuti nel libro sacro (il Corano, ndr) veniva osservato», racconta Majeed, la cui storia è stata subito raccolta e divulgata dalle principali testate indiane. «I combattenti dell’Isis violentano molte donne».
A un certo punto Mejeed viene colpito da un proiettile. «Ho dovuto supplicarli perché mi portassero all’ospedale. Mi sono curato da solo, ma la ferita stava peggiorando e non c’erano né medicamenti né cibo». La disillusione di Majeed è totale. È a quel punto che ha chiamato a casa dicendo di voler tornare. Agli agenti della Nia ha raccontato di essere stato addestrato insieme ai tre amici con cui è partito per l’Iraq. Hanno imparato a maneggiare gli AK 47 e i lanciarazzi, ma una volta arrivati sul campo, non li hanno mai usati.
«Non ne posso più. Il mio iPod non funziona qui. Devo tornare a casa», si legge in un messaggio mandato da un combattente francese in Siria ai genitori e raccolto dal quotidiano francese Le Figaro. «Sono stufo. Mi fanno fare il lavapiatti», dice un altro. «Non ho fatto altro che distribuire vestiti e cibo», racconta un terzo. «Ho pulito le armi e rimosso i corpi dei combattenti uccisi. Sta iniziando l’inverno e qui diventa dura».
Tra i fighters francesi pentiti, c’è anche chi viene scelto per andare al fronte, ma poi si trova impaurito, perché incapace di combattere: «Mi vogliono mandare al fronte – scrive uno – ma non so come si fa a combattere».
A metà ottobre il Daily Mail ha raccontato la storia di Samra Kesinovic e Sabina Selimovic, 17 e 15 anni rispettivamente, partite dall’Austria lo scorso Aprile. Al momento della partenza, avevano lasciato un biglietto ai genitori: «Non cercateci. Serviremo Allah e moriremo per lui». I servizi di sicurezza austriaci hanno riferito di aver intercettato i messaggi inviati dalle ragazze ai familiari, in cui dicevano di voler tornare a casa. Di loro si sa che si trovano a Raqqa, sono state date in spose a combattenti ceceni e si crede che siano ora incinte.
Secondo l’Independent, i cittadini francesi rientrati dal Medio Oriente sono circa un centinaio e 76 sono stati arrestati.
La questione che si apre, di fronte alle testimonianze di questi ragazzi è complicata. Le autorità nazionali hanno l’ordine di arrestare i combattenti di ritorno, soprattutto per evitare che jihadisti radicalizzati si trasformino in kamikaze una volta tornati in patria. Ma come comportarsi di fronte ai pentimenti? Misure troppo dure impedirebbero ai combattenti disillusi di ricostruirsi una vita normale nel Paese di origine. Ma allentare le misure nei confronti di chi rientra, potrebbe aprire le Nazioni al pericolo di finti pentiti pronti a diventare pericolosi uomini bomba.