Amina: “L’Islam va cambiato a partire dal Corano”

Amina: “L’Islam va cambiato a partire dal Corano”

La storia di Amina Sboui comincia quando decide, il 1 marzo 2013, di postare su Facebook una sua immagine a seno nudo, con la scritta “Il corpo appartiene alla donna”. Il gesto, in stile Femen, suscita un grande scandalo. Gruppi di salafiti, indignati dalla provocazione, la insultano e la minacciano. La sua fotografia fa il giro della rete, diventa famosa e, poco tempo dopo Amina viene processata e messa in prigione. L’accusa è di aver scritto “Femen” sul muro di un cimitero a Kairouan. Le proteste continuano, soprattutto da parte delle Femen, finché la ragazza non viene rilasciata nell’agosto 2013.

Qui comincia la seconda parte della sua storia. Amina lascia le Femen, perché “C’erano troppe cose che non approvavo, in particolare le divisioni interne”, poi va a finire il liceo a Parigi. Anche qui continua le sue manifestazioni: marcia, nuda, l’otto marzo 2014, con altre sei militanti femministe, in favore dei diritti della donna. Il 12 maggio dello stesso anno brucia la bandiera saudita, davanti all’ambasciata di Riyad in Francia. È un Paese che conosce bene perché vi ha trascorso parte dell’infanzia.

Ci sono anche ombre, però, nella vita a Parigi: prima la denuncia di una falsa aggressione da parte dei salafiti, per la quale si scusa con una lettera al giornale Libération. “Mi sentivo molto sola”, dirà. Poi l’attacco contro una donna che portava il velo. “Ho passato una notte sotto sorveglianza. Lì ho capito che il sistema carcerario francese non è migliore di quello tunisino”.

Ora Amina ritorna con un libro, la sua autobiografia. Si intitola Il mio corpo mi appartiene, edito in Italia da Giunti. Cerca di raccontare la sua storia, le sue idee e le sue convinzioni sul conflitto tra religioni, che dopo la strage di Charlie Hebdo ha ripreso a dominare il dibattito pubblico.

Cominciamo proprio da lì: l’assalto alla sede di Charlie Hebdo ha scosso il mondo occidentale, provocando reazioni di ogni genere.
È stato un atto terribile, disgustoso. La solidarietà della gente è stata grande, ma l’ipocrisia dei politici anche. Anche perché le istituzioni non hanno protetto, a mio avviso, la redazione in modo adeguato. Il giornale era stato già attaccato, aveva ricevuto diverse minacce. Mettere due poliziotti era troppo poco. Anche perché non si trattava di proteggere, in quel modo, soltanto le vite umane di chi lavorava a Charlie Hebdo. Si trattava di difendere anche la libertà di espressione.

Ti avevano dedicato alcune vignette.
Sì, lo so. Le avevo apprezzate.

Li conoscevi?
Alcuni. Ad esempio Charb. So che non era affatto una persona razzista o islamofobo, come sento che si dice in giro. Al contrario, aveva posizioni molto radicali a sostegno della causa palestinese, per il quale si era speso molto.

A proposito di islamofobia: tu avresti lasciato il gruppo delle Femen perché le avevi considerate “islamofobe”. È così?
No, non è vero. È una cosa che è stata raccontata da una giornalista che voleva mettersi in mostra, manipolando le mie parole. Ho lasciato le Femen perché non approvavo quello che è diventato, cioè un movimento senza organizzazione né strategia, oltre che segnato da una serie di conflitti interni. Non mi piaceva. E quello che fanno ora non ha più nessun effetto: vanno alle manifestazioni a caso, a seno nudo. È una cosa che non tolleravo e non accettavo. In generale i movimenti femministi nel mondo sono diventati troppo litigiosi, e passano il tempo a criticarsi tra di loro. Ci sono situazioni di disparità molto forti anche in Paesi come la Francia, dove pure si hanno uguali diritti, si ha liberà di movimento, si può abortire. E però c’è ancora molto da fare.

Le vignette che Charlie Hebdo ha dedicato ad Amina

Come è la vita a Parigi, ora?
Le persone sono spaventate. Escono poco, stanno fuori il meno che possono. Lavorano e poi tornano a casa. Perfino durante il weekend. In un certo senso il terrorismo ha avuto effetto, perché hanno diffuso la paura. Dall’altro però ha risvegliato le persone: quando hanno manifestato, lo hanno fatto perché erano sotto shock, erano spaventati.

Nessuno può criticare l’Islam e poi morire in modo normale

Anche tu sei spaventata?
No. Io lo sapevo a cosa sarei andata incontro quando ho deciso di protestare. Lo so che nessuno può criticare l’Islam e poi morire in modo normale. Io mi aspetto che succeda anche a me. Ma sono pronta, sono preparata.

Ma non c’è una soluzione a questo scontro di religione?
Bisogna intervenire sul Corano. La religione è il testo, e il problema è nel testo. Ci sono frasi che incitano alla violenza, che dicono “elimina gli infedeli”. Pensare di interpretarle, o di ignorarle, non è sufficiente. Bisogna toglierle.

Mi sembra difficile. Il Corano è un testo sacro.
Sì, ma va cambiato. Ci sono versetti che suggeriscono di non credere alla religione degli altri, e quelli vanno bene. Ce ne sono altri che invece incitano alla soppressione. E quelli no, non devono più esserci. Del resto, è ovvio che il fanatismo religioso coinvolge le persone disperate, quelle più povere, quelle con pochi mezzi e senza istruzione. Ma il problema rimane: non puoi eliminare la poverà, e nemmeno l’ignoranza. Però puoi cambiare il Corano.

Ma chi lo potrebbe fare?
I musulmani lo devono fare. Ma bisogna ricordarsi, del resto, che in pochi lo conoscono, pochi lo hanno letto tutto davvero.

Tu lo hai letto?
Sì. Sono stata molto religiosa nel mio passato. A 13 anni ero una fervente musulmana. A 14 ho cominciato ad avere i primi dubbi. A 15 sono diventata cristiana.

E poi?
Poi ho capito che anche il cristianesimo è solo una favola. Non si può perdonare il proprio nemico. Non si può pensare all’amore universale. Il mondo è fatto di cose brutte. Ce ne sono troppe. Se Dio esiste, e io non credo, allora è un Dio cattivo. Va punito. Deve andare all’inferno. Se fossi al suo posto, io farei tutto in modo perfetto.

Il Corano va cambiato. Pochi del resto lo hanno letto tutto

Ma il velo? Va portato?
In Francia c’è un dibattito sull’uso del velo nei luoghi pubblici. Ognuno può fare come preferisce. Io sono contraria. Mia madre lo ha indossato per la prima volta quando siamo andati in Arabia Saudita, poi al ritorno in Tunisia lo ha tenuto. Io no. In ogni caso, non capisco perché debbano metterlo solo le donne: se serve davvero a evitare che l’uomo cada in tentazione di fronte alla loro forma, o alla bellezza, allora lo stesso vale per gli uomini. Ogni giorno mi capita di vederne alcuni che mi turbano, e per i quali cadrei in tentazione. Anche loro, per lo stesso ragionamento, dovrebbero coprirsi. No?

Com’è un carcere tunisino?
Ero molto spaventata prima di entrare. Ma mi hanno trattata bene. Ho conosciuto molte persone, ho visto con i miei occhi situazioni che non avrei mai immaginato. Sono cresciuta, in due mesi, di almeno dieci anni. Va detto che un carcere femminile non è un carcere maschile. Se posso dire di essere una persona migliore rispetto a quando sono entrata dipende anche da questo.

La fama delle prigioni tunisine, in effetti, non è buona.
Ma nemmeno di quelle europee. Quella italiana, ad esempio. Ma anche in Francia sono stata trattata molto male, ed ero solo sotto sorveglianza. Volevo fumare, e non me lo permettevano “perché hai commesso un reato”. Che c’entra?

Cosa farai dopo la scuola?
Studierò. E poi vorrei fondare un movimento per aiutare le donne che escono di prigione. In Tunisia sono discriminate, respinte dalla società e anche dalla famiglia. E se avevano un lavoro, non lo ritrovano più. Sono costrette, per vivere, a prostituirsi, che è proibito dalla legge. E allora questo alimenta il circol vizioso: finiscono di nuovo in carcere, ne escono, ritornano a prostituirsi, e così via. L’idea è di aiutarle. Non lo farei io, sono troppo irresponsabile, lo so: ne approfitterei solo per fare delle feste, e poi si finirebbe di nuovo tutti in prigione. E non andrebbe bene.

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