Banche popolari, perché la riforma non convince

Banche popolari, perché la riforma non convince

La decisione del governo di obbligare le banche popolari a trasformarsi in SpA e abolire il voto capitario suscita forti perplessità, anche a causa del carattere di urgenza che le è stato attribuito. Un pezzo fondamentale della struttura finanziaria del Paese è stato “riformato”, senza discussione pubblica. Le motivazioni? Affidate ad un paio di lievi cinguettii su Twitter. Quando invece le domande a cui il governo dovrebbe rispondere pesano come macigni. Chi e per quale motivo ha richiesto questo intervento? Perché era così urgente da non rendere possibile un confronto pubblico? Quali sono gli obiettivi che il governo vuole conseguire? Sono stati valutati i rischi e le conseguenze possibili della rottamazione di una storia lunga centocinquant’anni, diffusa in tutta Europa e che, per usare le parole del Ministro Padoan, «ha servito bene il Paese»?

Di tutte le motivazioni addotte, le più stravaganti sono quelle relative al numero dei banchieri (troppi) e il credito (poco). Ammesso e non concesso che la numerosità dei banchieri sia un problema del governo, se proprio si voleva dare una sfoltita perché limitarsi a dieci banche popolari e non attaccare tutto il sistema del credito cooperativo?

Allo stesso modo, per quanto riguarda il credito è vero che in Italia abbiamo un problema ma certo non è attribuibile alle banche popolari. Anzi, stando alla Cgia di Mestre, è vero proprio l’opposto. Dal 2011, inizio della stretta creditizia, al 2013 le Popolari hanno aumentato i prestiti del 15,4% mentre gli Istituti di credito sotto forma di SpA hanno diminuito i prestiti del -4,9%, le Bcc del -2,2% e le banche estere del -3,1%.

Un’altra motivazione che è stata usata è che la riforma delle popolari è stata fatta perché «era ferma da vent’anni». Che va benissimo per la comunicazione politica ai tempi di Twitter, riuscendo ad associare in 140 caratteri il politico all’alpinista – la vetta si scala perché è lì -, ma è offensiva dell’intelligenza dei cittadini italiani, soprattutto se si deve offrire una giustificazione dell’urgenza con cui si è provveduto a varare il provvedimento e del perché, tra le tante urgenze del Paese sia stata data massima priorità alla governance delle popolari. Anche perché, come ha sostenuto il prof. Marco Onado nell’editoriale del Sole24Ore del 21 gennaio, tra riformare la governance e «mettere al bando l’assetto cooperativo, imponendo per decreto alle popolari oltre una certa soglia dimensionale la forma di società per azioni, corre un abisso».  

In realtà, l’urgenza e il timing dell’approvazione dell’investment compact – il pacchetto di leggi per attrarre investimenti, nel quale è inserita anche la riforma delle banche popolari – fanno sorgere il sospetto che dietro ci sia una sorta di do ut des con la Commissione Ue e la Banca Centrale Europea. L’investiment compact è stato approvato martedì 20 gennaio, a pochi giorni dall’annuncio del Quantitative Easing della Bce – atteso per oggi e di cui l’Italia dovrebbe essere uno dei massimi beneficiari – e dopo l’avvenuta apertura della Commissione Ue su una maggiore flessibilità nell’esame di marzo dei conti pubblici italiani, «a patto però le riforme strutturali si facciano per davvero». 

A tale proposito, notiamo che, delle dieci banche popolari che sono oggetto del provvedimento, le otto più grandi ricadono nella lista delle quindici maggiori banche italiane che da inizio novembre 2014 sono passate sotto la supervisione e la vigilanza della Bce di Mario Draghi. Il fatto che Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia – sotto la cui supervisione rimangono solo le 2 più piccole: la Popolare dell’Etruria e del Lazio e la Popolare di Bari -, abbia dichiarato di non sapere nulla del provvedimento ancora la mattina del 20 gennaio, a poche ore dal Consiglio dei Ministri, indirettamente conferma che il dossier è stato studiato a Francoforte e non a Via Nazionale. D’altro canto, anche presupponendo l’iniziativa da parte dell’esecutivo, nessun governo interverrebbe su un settore regolamentato senza prima consultarsi con l’autorità preposta, soprattutto se questa è europea.

Per vedere la tabella in formato ingrandito, cliccare qui

La tabella è stata elaborata sui dati rilasciati dall’EBA (la European Banking Authority) in occasione della pubblicazione dell’esito degli stress test, terminati i quali la Bce si è sostituita alla Banca d’Italia nella supervisione degli istituti creditizi maggiori. Il primo gruppo di tre colonne rappresenta la fotografia a fine 2013 della patrimonializzazione delle banche italiane in riferimento agli attivi, ponderati per il rischio. Il secondo gruppo rappresenta invece lo stress test vero e proprio, cioè la situazione in cui verrebbero a trovarsi le banche nel 2016 qualora si dovesse realizzare lo scenario avverso ipotizzato dall’EBA. La tabella è illuminante sotto parecchi punti di vista.

In primo luogo, spazza via l’idea che siano il voto capitario e la forma cooperativa a determinare le situazioni di stress patrimoniale. Le due peggiori banche sono da questo punto di vista Monte Paschi e Carige che, come è noto, sono “normali” società per azioni. Tuttavia, conferma l’intuizione che la Bce possa essere preoccupata per il livello di patrimonializzazione di molte banche popolari. Nel caso di scenario avverso, a parte UBI, il capitale viene eroso in maniera significativa e scende pericolosamente sotto il limite del 5,5%. E’ vero che molti istituti italiani (popolari e non) hanno effettuato aumenti di capitale e venduto crediti in sofferenza. Nel corso del 2014, ma questo è avvenuto sotto la gestione della Banca d’Italia. La Bce ha dimostrato chiaramente di voler ripartire da zero e dotarsi di margini di sicurezza ben più elevati (si veda ad esempio qui).

Rimane incomprensibile, tuttavia, il ragionamento che deve aver portato il Governo (o la BCE) a indicare, come soluzione al problema della patrimonializzazione, l’abolizione del voto capitario e l’adozione della forma di SpA. Il voto capitario può essere un problema in caso di ricapitalizzazione di una banca se gli azionisti esistenti non hanno la forza di apportare mezzi freschi. Visto che un azionista “forte” conta come l’ultimo dei dipendenti-azionisti è più difficile estrarre il premio del controllo e quindi è più difficile attrarre un certo tipo di capitali. Ma il fatto che un aumento di capitale sia più difficile non significa che sia particolarmente difficoltoso o impossibile. Le banche popolari hanno ricapitalizzato più volte negli ultimi anni, sia in periodi di Borsa favorevoli come il 2014 sia in periodi difficili come il 2011.

Comunque, è vero che una banca popolare tradizionale non è vendibile ad investitori (italiani o esteri) il cui obiettivo è la massima estrazione di valore monetario. La razionalizzazione del personale, ad esempio, si scontrerebbe con l’opinione contraria non solo degli azionisti-dipendenti, ma anche di tutti gli stakeholder-shareholder che non vedrebbero di buon occhio il depauperamento del capitale umano residente sul territorio. Allo stesso tempo, la revisione complessiva delle condizioni di prestito alle imprese più rischiose o alle famiglie più disagiate potrebbe risultare sgradita ad altre tipologie di stakeholder-shareholder.

D’altro canto, come ha teorizzato Luigi Luzzatti, economista e fondatore della Popolare di Milano, nel 1863 in “La diffusione del credito e le banche popolari”, l’obiettivo della banca popolare è quello di offrire credito a quelle fasce di piccole imprese e di famiglie che il linguaggio moderno definirebbe “non bancabili”. Rispetto a centocinquant’anni fa i tempi sono ovviamente cambiati, ma lo spirito è in parte rimasto e la tipologia di azionariato ne è una dimostrazione. Infatti, non è detto che le banche popolari non siano in grado di raggiungere autonomamente un livello di efficienza sufficiente a soddisfare investitori internazionali – come i fondi pensione o i fondi comuni – interessati ad un rendimento “normale” e non agli “extra” che solo il controllo può dare. In UBI il 40% dell’azionariato è costituito da fondi comuni.

È ovvio che, di fronte all’opportunità di mettere le mani su un “tesoro” di clienti e di relazioni secolari, la reazione in Borsa sia estremamente positiva. Ma il governo dovrebbe distinguere tra ciò che è bene per gli azionisti (futuri) e ciò che è bene per il territorio (produttori e consumatori) ed avere maggiore fiducia nella capacità del mercato di selezionare le forme organizzative più adatte agli specifici ecosistemi di cui si compone un Paese complesso come l’Italia. Se la forma organizzativa della banca popolare non è competitiva, allora ci penserà il mercato ad eliminarla. Tra l’altro, nel caso delle popolari italiane, non dovrebbe applicarsi il principio del “too big to fail” e, quindi, se non si mettono barriere all’entrata e se non si operano favoritismi fiscali o di altra natura, per quale ragione il pubblico dovrebbe limitare il modo in cui i soci decidono di esprimere il loro diritto di voto? Tra l’altro, a differenza dell’altra decisione governativa, quella sul voto multiplo, nel caso delle Popolari le regole sono note da 150 anni. Ovviamente, se le autorità di controllo intravvedono in specifiche forme di governance un maggiore pericolo per la rischiosità posta a carico del contribuente (via assicurazione dei depositi, costi pubblici del controllo, etc etc) basta applicare coefficienti di patrimonializzazione più elevati. Ma a quel punto si applicano a tutti: alle grandi Popolari italiane, ma anche a quelle estere.

Sempre rimanendo nell’ambito della finanza straordinaria, con il voto capitario è (forse) più difficile aggregare diverse banche fra di loro. Ma anche in questo caso difficile non vuol dire impossibile. Ubi è il risultato dell’aggregazione (o meglio, “federazione”) di un gruppo di banche popolari. E la difficoltà dell’aggregazione non sta nel voto capitario in sé, ma nella maggior volontà di radicamento territoriale di cui il voto capitario è espressione.  Insomma, per mettere insieme due banche popolari, si devono mettere d’accordo una miriade di corpi intermedi che esprimono gli interessi dei rispettivi territori. Nel caso di due società per azioni (in teoria) sarebbe necessario mettere d’accordo solo una decina di azionisti di riferimento. Detto per inciso, chiunque abbia memoria del processo di aggregazione del sistema bancario italiano iniziato negli anni ‘90 sa che la linearità dei libri di testo non ha nulla a che vedere con la complessità della realtà.

Una considerazione finale: il Governo dovrebbe fare estrema attenzione a sposare la tesi che l’impostazione mercato-centrica dei sistemi anglosassoni sia applicabile al sistema economico italiano. Il nostro sistema è costituito in larga parte da un tessuto di micro-imprese che possono finanziare gli investimenti e superare difficoltà temporanee solo ricorrendo al credito bancario o all’auto-finanziamento (o al Tfr dei dipendenti). Pensare di sostituire il credito con i mini-bond o le banche con i credit fund è una pia illusione. Senza legami territoriali non esiste attività creditizia e senza il credito non esiste attività commerciale. Si può innovare quanto si vuole sulla tecnologia, ma l’erogazione del credito richiede, oggi come centocinquant’anni fa, i piedi ben piantati per terra.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter