Cos’ha imparato Al Qaeda dall’attentato a Charlie Hebdo

Cos’ha imparato Al Qaeda dall’attentato a Charlie Hebdo

Le recenti azioni di polizia contro gruppi legati al terrorismo islamico in tutta Europa dicono che l’Occidente ha probabilmente imparato qualcosa dall’attentato contro Charlie Hebdo e – questo è l’auspicio – un salto di qualità nella prevenzione è già in corso. Ma dalle recenti stragi di Parigi sicuramente anche Al Qaeda e le altre organizzazioni terroristiche hanno imparato qualcosa. Con uno sforzo organizzativo minimo rispetto a quello richiesto dagli attentati in grande stile (New York, Madrid, Londra) hanno ottenuto un’eco mediatica eccezionale. Il rischio – e anche qualcosa di più – è che quanto accaduto sia considerato un tale successo da volerlo replicare il più spesso possibile.

«Gli attentati dell’11 settembre 2001 avevano indicato una strada: attentati spettacolari con moltissimi morti che facessero parlare per settimane e mesi le tv e i giornali, occidentali e orientali», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Ma quel tipo di attacchi è molto difficile da organizzare e negli ultimi anni le intelligence occidentali sono state attente a stroncare sul nascere operazioni di questo genere. Trovandosi sulla difensiva le organizzazioni jihadiste hanno dirottato i loro sforzi su bersagli secondari, più facili da raggiungere ma anche meno clamorosi quando raggiunti. È già successo in Francia, in Inghilterra, in Canada e in Australia, ad esempio. Secondo me dalla strage di Charlie Hebdo hanno però tratto una lezione: se scelti bene anche i bersagli secondari possono portare una enorme esposizione mediatica. È possibile che ora le risorse di queste organizzazioni vengano distolte dalla pianificazione – finora spesso fallimentare – di attentati spettacolari per privilegiare l’attuazione di uno stillicidio di attacchi sul suolo occidentale contro “soft target” (cioè bersagli non protetti tanto quanto un primo ministro o un volo di linea), ma comunque soggetti pubblici e molto noti, come appunto la redazione di un giornale».

La nuova strategia delle organizzazioni jihadiste – che dunque potrebbe avere un salto di qualità nell’immediato futuro, ma che già è in atto da mesi a un livello più basso – non nasce ovviamente dal nulla. È diventata possibile grazie all’enorme numero di “foreign fighters” che rientrano in Europa dopo aver combattuto in Siria e aver ricevuto indottrinamento e addestramento sul campo. «Grazie ai combattenti di ritorno da Siria e Yemen – conclude Neri – Al Qaeda, l’Isis e le altre sigle terroristiche possono puntare a compiere numerosi attentati suo suolo europeo, con la frequenza più alta possibile. Rischiamo insomma di avere un Charlie Hebdo ogni pochi mesi».

«Sono mesi che le riviste in lingua inglese di Al Qaeda nella Penisola Araba e dell’Isis, rispettivamente Inspire e Dabiq, incitano i musulmani che vivono in Occidente a compiere attentati di questo tipo (addirittura il direttore di Charlie, Charb, era stato esplicitamente indicato). Alla chiamata possono rispondere tanto le cellule dormienti – come pare fosse quella dei fratelli Kouachi a Parigi – quanto dei “lupi solitari”, soggetti che vivono ai margini della società, che si radicalizzano su internet, che magari finiscono in carcere e lì incontrano “cattivi maestri”», racconta Leandro Di Natala, analista dell’European Strategic Intelligence and Security Center di Bruxelles. «Su Inspire già lo scorso dicembre si profetizzava un incremento della strategia della “Lone Jihad”, cioè portata avanti da pochi o singoli individui. Il portavoce dell’Isis Abu Mohammed al Adnani lo scorso settembre ad esempio suggeriva di attaccare gli occidentali anche investendoli con la propria automobile, cosa poi accaduta in Canada contro appartenenti alle forze dell’ordine un mese dopo. Ma visto il successo dell’attacco a Charlie Hebdo, il rischio che quello diventi un modello da replicare esiste sicuramente. L’obiettivo dei fanatici è infatti quello di provocare una reazione sproporzionata da parte dell’Occidente, che criminalizzi tutti gli islamici spingendoli di fatto tra le loro braccia». Le cronache politiche di molti Paesi, dalla Francia all’Italia, fino ad arrivare agli estremisti di Pegida in Germania, hanno raccontato negli ultimi giorni di come l’obiettivo sia a portata di mano.

«Per rispondere a questa minaccia – prosegue Di Natala – serve sicuramente monitorare le filiere collegate a Siria e Yemen ma anche promuovere programmi di de-radicalizzazione, come ad esempio stanno facendo in Danimarca e Olanda. Non a caso i terroristi “europei” vengono fuori da contesti di grave emarginazione sociale. Ci sono quartieri in Belgio – il Paese con il tasso di foreign fighters più alto d’Europa – in cui la popolazione è quasi interamente islamica e dove la disoccupazione giovanile si aggira al 50 per cento. Intervenire sul disagio sociale è fondamentale in ottica di prevenzione».

Se la prevenzione è indispensabile anche la repressione, oramai, non può essere rimandata. Nel Califfato islamico, a cavallo tra Iraq e Siria, si è creato quel “santuario per terroristi” – incubo del dopo 11 settembre che aveva portato a intervenire in Afghanistan – che consente alle organizzazioni jihadiste di addestrare gli uomini, indottrinarli, armarli, rimandarli in Occidente e portare avanti una propaganda (in lingua inglese e non solo) rivolta ai musulmani che vivono in Europa. «Senza un adeguato addestramento – dice ancora Di Natala – una strage come quella di Parigi non sarebbe stata possibile. Il permanere dello Stato Islamico continuerà a rappresentare una minaccia per la nostra sicurezza. Il problema è che, come ci hanno insegnato le passate esperienze in Iraq e Libia, intervenire senza una strategia sarebbe anche peggio. Bisognerebbe coinvolgere tutti gli attori regionali interessati – conclude – per trovare una soluzione, e solo dopo intervenire militarmente in modo massiccio».

Il problema è che la situazione Medio Orientale si è talmente ingarbugliata che l’Occidente fatica a elaborare una strategia. Favorire troppo gli sciiti – nemici dell’Isis e di Al Qaeda – potrebbe avvantaggiare organizzazioni come Hezbollah e l’Iran, oltre ad irritare l’alleato strategico Saudita e Israele. Sostenere Assad in Siria contro i ribelli sarebbe una retromarcia politicamente molto difficile, dopo averlo etichettato e trattato come dittatore sanguinario per gli ultimi anni. Favorire le forze curde – le più attive militarmente contro l’Isis – spaventa l’alleato turco e la nascita di uno Stato curdo potrebbe destabilizzare l’intero Medio Oriente. Di fronte a questo nodo gordiano, l’Europa e l’America sono stati finora a guardare. Gli attentati di Parigi hanno però ricordato a tutti che lasciare una base operativa al “nemico” alle porte di casa propria non rimane mai senza conseguenze.

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