«Io non voglio essere un politico». Semplice e chiaro, Mario Draghi rinuncia alla corsa per il Quirinale. E forse stavolta la sua candidatura diventa davvero concreta. Intervistato dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt, il presidente della Bce smentisce con decisione le indiscrezioni sulla staffetta con Giorgio Napolitano. Nessun dubbio: il suo mandato a Francoforte proseguirà fino al 2019. Vuoi vedere che l’Italia ha trovato il nuovo presidente della Repubblica? Nulla da eccepire alla buona fede di Draghi, per carità. È la storia recente che lo insegna. Da Renzi a Monti, passando per Berlusconi e Prodi. Nel Palazzo non c’è miglior autocandidatura della smentita. Il rifiuto sdegnato è quasi un passaggio obbligato. Del resto in politica le parole pesano il giusto, spesso niente. Per cambiare idea basta un attimo, e alla fine una giustificazione ai propri ripensamenti si trova sempre.
Non era andata così anche l’ultima volta? «Il presidente Napolitano non ritiene ipotizzabile una riproposizione del suo nome per la Presidenza della Repubblica». Con una nota ufficiale secca e inequivocabile, il 21 febbraio 2013 il capo dello Stato respingeva per l’ennesima volta le voci sulla sua permanenza al Colle. «Il presidente Napolitano – si leggeva – ha da tempo pubblicamente indicato le ragioni istituzionali e personali per cui non ritiene sia ipotizzabile una riproposizione per la Presidenza della Repubblica». E ancora: «Il Presidente non può che confermare le posizioni già espresse nel modo più limpido e netto». Più chiaro di così… A scanso di equivoci il successivo 14 aprile, in un colloquio con La Stampa nel bel mezzo del trasloco dalle sue stanze al Quirinale, il capo dello Stato confermava. «Farmi rieleggere? Una non soluzione». Ma si sa, in politica gli scenari cambiano in un attimo. Muta il clima e si stravolgono le priorità. Come è andata a finire quella storia è noto a tutti: neanche una settimana dopo l’intervista, il presidente accettava per spirito di sacrificio la sua rielezione. «Dobbiamo guardare tutti, come io ho cercato di fare in queste ore, alla situazione difficile del Paese, ai problemi dell’Italia e degli italiani».
Anche il premier Matteo Renzi deve aver guardato ai problemi degli italiani, quando lo scorso inverno ha accettato di andare al governo. E sì che fino all’ultimo aveva insistentemente rassicurato il suo predecessore Enrico Letta. Una sostituzione alla guida dell’esecutivo? Mai. A Palazzo Chigi si entra «solo passando dalle elezioni, non dagli inciuci di palazzo» assicurava in tv poche settimane prima della sua nomina. Un cambio di programma improvviso, magari per qualcuno anche inatteso. Caratterizzato da un curioso episodio destinato a entrare nella leggenda del camaleontismo politico. «Diamo un hashtag – così spiegava Renzi in un’intervista alle Invasioni Barbariche – #enricostaisereno. Nessuno ti vuol prendere il posto, fai quello che devi fare». Era la metà di gennaio. Esattamente un mese più tardi la direzione del Pd votava a grande maggioranza la successione alla guida del governo e il presidente Napolitano gli affidava l’incarico.
Nulla di scandaloso, la politica è anche questo. Tattica, strategia, colpi a sorpresa. E chissenefrega della coerenza. Prima delle ultime elezioni Silvio Berlusconi non aveva forse annunciato più di una volta di volersi fare da parte? E non si è regolarmente candidato a premier? A pochi mesi dal voto, intervenendo a La Telefonata di Maurizio Belpietro su Canale 5, aveva persino aperto alla leadership di Mario Monti. «Se Monti si candida – aveva confermato poco tempo dopo durante la presentazione del solito libro di Bruno Vespa – faccio un passo indietro». A fine ottobre l’ex Cav aveva addirittura annunciato con una nota ufficiale la celebrazione di elezioni primarie per la scelta del suo successore. «Non ripresenterò la mia candidatura a premier – le parole di Berlusconi – ma rimango a fianco dei più giovani che debbono giocare e fare gol». Poi, inevitabile, il ripensamento. In Italia è tradizione: una candidatura val bene una giravolta. Roba da far impallidire Leopoldo Fregoli.
A quelle elezioni partecipava un altro candidato che fino a poco tempo prima aveva assicurato la sua indisponibilità. Era proprio il presidente del Consiglio Mario Monti. In testa alla nuova formazione di Scelta Civica, eppure fino all’autunno precedente pubblicamente convinto del suo imminente addio alla politica. Tanto per essere chiari, a novembre 2012 il Professore lo aveva confermato alla stampa internazionale, durante il Financial Times Italy Summit di Milano. Una candidatura a Palazzo Chigi? Assolutamente no. «Molte persone riescono a immaginare questo scenario, a qualcuno piace e a qualcuno no. Io non ho molto da commentare in proposito».
Da un Professore all’altro, un ripensamento dopo il precedente. È il turno di Romano Prodi, oggi ancora in corsa per il Quirinale dopo essere stato clamorosamente bruciato un anno e mezzo fa. Impallinato da 101 franchi tiratori durante il voto segreto in Parlamento. Anche allora, prima di accettare la candidatura offerta dal Partito democratico, Prodi aveva respinto con fastidio le indiscrezioni che lo volevano sulla strada del Colle. «Il chiacchiericcio che mi associa al Quirinale – si legge in un comunicato del 9 febbraio 2013 ripescato oggi dal Giornale – ha assunto un’intensità davvero non rispettosa. Né nei confronti dell’istituzione, né della mia persona. Da alcuni mesi ho assunto un incarico gravoso presso l’Onu per il Sahel. Considero questo impegno un modo per servire anche il mio Paese e l’Europa. Esso rappresenta l’unica mia priorità dopo l’uscita dalla politica nazionale». Una smentita inequivocabile, una candidatura evidente.