Fabbriche lager per i cinesi, a Prato è cambiato poco

Fabbriche lager per i cinesi, a Prato è cambiato poco

Un migliaio di aziende ispezionate, qualche decina sottoposta a sequestro, centinaia di impianti elettrici fatiscenti all’interno degli stabilimenti. A Prato e dintorni da alcuni mesi è partito un piano straordinario di controlli che dovrebbe contribuire a evitare stragi come quella del 1 dicembre 2013, quando sette lavoratori cinesi morirono in un incendio. Le fiamme li aggredirono di domenica mattina, mentre dormivano proprio nella fabbrica. Il 12 gennaio 2015 è arrivata la prima sentenza sulla vicenda: condannata a otto anni e otto mesi la titolare dell’impresa per omicidio colposo plurimo, incendio colposo, omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche e antincendio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sei anni e 10 mesi invece alla sorella dell’imputata e suo marito. Tutte e tre le persone condannate sono cinesi, ma resta aperto un altro processo, quello ai proprietari italiani del capannone. Ma quanto è cambiato il livello di sicurezza nel distretto dopo la tragedia?

Migliaia di aziende orientali
Nel primo semestre 2014 le imprese con titolari cinesi attive in provincia di Prato erano poco più di 5.300, su un totale di 7.900 società a conduzione straniera e di circa 30mila complessive, se includiamo anche le italiane. Le fabbriche di confezioni cinesi erano 3.400, e dopo la strage non sono diminuite: tra gennaio e giugno dell’anno scorso ne sono state avviate 400, il doppio di quante hanno chiuso. I cittadini di origine orientale controllano l’85% del comparto, secondo i dati della camera di commercio. «Dopo l’incendio», dice il presidente della Camera di Commercio Luca Giusti, «ci siamo accordati con polizia e pompieri perché avessero accesso diretto al registro delle imprese. L’obiettivo è identificare i titolari delle singole attività e tenere sotto controllo aperture e chiusure». La presenza di prestanome e il cambio di ragione sociale per continuare a lavorare sono alcuni dei problemi da affrontare. Il più grave è quello delle situazioni in cui si rischia la vita: dormitori illegali, depositi di bombole a gas, impianti elettrici superati. «Sicuramente oggi ci sono molte meno realtà simili a quella della tragedia del 2013. Questo non significa che sia tutto a posto. Prendiamo un dato: in questi mesi non mi pare che le richieste di affitto siano aumentate. Dove sono finiti i lavoratori che dormivano negli stabilimenti? Alloggiano altrove? E in quali condizioni?».

A settembre la regione ha lanciato un piano di controlli che entro la fine del 2016 dovrebbe permettere di ispezionare tutte le 7.700 aziende dell’area vasta: Prato, Pistoia e Firenze. Nei primi tre mesi le imprese coinvolte sono state 860. Di queste 242 sono risultate completamente a posto e 62 avevano problemi tali che si è deciso di bloccare l’attività. Le altre presentavano irregolarità, ma non così gravi da dover mettere i sigilli. Le verifiche hanno fatto emergere 85 dormitori abusivi, 17 depositi di bombole e 184 impianti elettrici fatiscenti. Regione e associazioni di categoria hanno lanciato anche un patto fiduciario per chiedere a chi non è a norma di farsi avanti ed essere accompagnato in un percorso di regolarizzazione. Chi accetta finirà in fondo alla lista delle fabbriche da controllare.

(Fiaccolata dopo il rogo del dicembre 2013 a Prato/Getty Images/Afp)

Centinaia di adesioni
«Tutti i nostri 260 iscritti hanno chiesto di partecipare», dice Wang Liping, presidente di CNA World China, gruppo di imprese orientali interno all’organizzazione artigiana italiana. «Il patto funziona bene, e molti miei connazionali non dormono più nei capannoni. Se a questo aggiungiamo l’impatto della strage e della sentenza, credo che un numero sempre maggiore di persone possa convincersi a impegnarsi per aumentare la sicurezza. Parlo anche dei proprietari italiani di strutture in cui lavorano società cinesi». La storia di Wang è esemplare: arrivato a Prato nel 1990, per sei anni ha dormito in fabbrica, dove dal 1992 aveva anche la residenza. «Il comune la concedeva, forse perché servivamo all’economia locale. Col tempo una parte di noi è riuscita a uscire dagli stabilimenti, altri invece no. Il problema si è trascinato per decenni e non può essere risolto in un anno, ma mi sembra che le cose siano già migliorate molto».

Di una «bella quota di aziende che vogliono emergere» parla anche Massimiliano Brezzo, segretario provinciale della Filctem, la Cgil di categoria. Il sindacato si è costituito parte civile in entrambi i processi in corso. Il verdetto del tribunale del 12 gennaio gli ha assegnato 100mila euro. «È la cifra che avevamo chiesto, la stessa riconosciuta nel caso della Thyssen, e la daremo in beneficenza. Abbiamo lottato e lottiamo per denunciare un sistema illegale, che impedisce ai lavoratori di entrare in contatto con noi e viceversa. Da un lato chi non è regolarmente residente e non ha nessun contratto resta nell’ombra per non essere scoperto. Dall’altro noi non possiamo entrare nelle aziende a vedere cosa succede, se pensiamo ai controlli in cui le forze dell’ordine sono costrette a usare la scure o un piede di porco per aprire la porta». Brezzo dice che il piano repressivo sostenuto dalla regione va nella direzione giusta, ma può essere migliorato. «Dovrebbe essere più mirato, andare a colpire i punti decisivi della filiera produttiva: stamperie e tintorie. Se blocco un’azienda di confezioni che prepara mille capi, al suo posto può farlo quella accanto. Se fermo una stamperia da cui escono 50mila metri di stoffa al giorno, impedisco che quel materiale sia usato per mettere insieme 50mila abiti». Il sindacalista conferma che l’incendio del 2013 ha spinto parte delle imprese cinesi a mettersi in regola, e si augura che la sentenza ne convinca delle altre.

Un bilancio parziale
Nei tredici mesi e mezzo seguiti alla strage, insomma, qualcosa è stato fatto. Sono partiti i controlli straordinari e sono state fermate decine di aziende in cui la tragedia avrebbe potuto ripetersi. C’è stato un lavoro di dialogo tra associazioni e istituzioni italiane e la comunità cinese. C’è stato un processo che ha stabilito delle responsabilità, sia pure in primo grado, e ce n’è un altro in corso su un aspetto importante del problema: i proprietari italiani dei capannoni. Alcune centinaia di imprese si sono fatte avanti per essere accompagnate verso la legalità. Migliaia non l’hanno fatto, e le ispezioni dovranno stabilire quante mettono a rischio la sicurezza dei lavoratori. Le situazioni che comportano pericoli per la sopravvivenza non sono sparite, ma è ragionevole pensare che siano diminuite, anche se è difficile dire di quanto. La speranza di un cambiamento radicale è affidata all’intensità e alla qualità dei controlli e del dialogo, oltre che al desiderio di avere sentenze giudiziarie definitive in tempi accettabili.  

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