«Vuole sapere la verità? Sono disperato». Ormai Carlo Lenzini ha perso la speranza. E non si vergogna più di raccontare il suo dramma. «Chiedo aiuto da due anni, ma non ho ancora ricevuto una risposta». Titolare della clinica Valle Fiorita a Roma, un paio di anni fa ha dovuto chiudere l’attività di famiglia per colpa della crisi. Il piano di rientro della Regione Lazio ha tagliato gli ultimi fondi a disposizione: dopo oltre sessant’anni lo storico presidio medico ha interrotto il servizio. Licenziati i 180 dipendenti, l’inferno del proprietario è cominciato solo allora. Nel giro di pochi mesi l’immobile è stato occupato da un centinaio di famiglie in cerca di alloggio. Oggi, senza più la clinica, Lenzini è costretto anche a pagare il conto del suo dramma. Ha dovuto versare 400mila euro di Imu al Comune di Roma. Come se non bastasse, le società che forniscono acqua ed energia elettrica gli hanno appena recapitato un decreto ingiuntivo di circa 100mila euro. Sono le bollette degli ultimi mesi. «Non vogliono staccare le utenze – racconta incredulo – perché i loro operatori non riescono a entrare nell’immobile». Trentadue anni, l’entusiasmo dell’imprenditore Carlo Lenzini l’ha perso da tempo. E se accetta di raccontare la sua storia assurda è solo per disperazione. «Mi chiede perché sorrido? Altrimenti mi metterei a piangere». Vittima di un cortocircuito burocratico che assomiglia a un paradosso. Oggi è costretto a pagare centinaia di migliaia di euro per un palazzo che gli è stato sottratto. «Intendiamoci – precisa – l’emergenza abitativa è un problema reale. Un dramma che il Comune di Roma non è in grado di gestire. Ma non accetto che a farsene carico debba essere il privato. Perché la verità è questa: oggi la mia famiglia è diventata l’ammortizzatore sociale del Campidoglio».
L’ex casa di cura Valle Fiorita
Primavalle, popolosa periferia nel quadrante ovest della Capitale. Lungo via di Torrevecchia si concentra il classico microcosmo di bar, edicole, farmacie e supermercati. Valle Fiorita è proprio di fronte alla parrocchia della zona, San Cipriano. Sui terrazzi dell’ex casa di cura le antenne paraboliche spuntano fitte. Tra panni stesi e qualche scatolone, c’è chi non ha ancora rimosso le ultime luci di Natale. Al centro del grande giardino, svetta il palazzo. Ottomila metri quadrati, quattro piani che ora danno casa a circa 250 persone. Una parte del muro di cinta è attraversato dal filo spinato. Sul tetto domina una guardiola improvvisata, costruita di recente dai nuovi inquilini. All’interno, una sentinella osserva le strade che circondano la clinica. Gli ingressi carrabili sono sbarrati da panchine di ferro e fioriere, catene e lucchetti. Due persone in portineria controllano chi entra e chi esce. Ma la porta è sempre chiusa. A prima vista sembra l’anticamera di un centro sociale, blindato. “Casa per tutti” recita un murales azzurro sulla facciata dello stabile, mentre l’entrata dipinta di rosso è tappezzata di manifesti, adesivi, slogan e bandiere. L’ordinanza di sequestro preventivo emanata un anno fa dal gip Maria Paola Tomaselli cita la testimonianza di un occupante: «Nel gabbiotto è posizionato uno schermo dove convogliano le immagini delle quattro telecamere, tutti sono obbligati a fare il servizio di picchetto altrimenti si viene cacciati». E in caso di intervento della Polizia le sentinelle hanno «l’obbligo di avvisare tutti gli occupanti invitando le famiglie con i bambini a salire sul tetto». Da via di Torrevecchia si intravedono le manichette antincendio, portate in cima al palazzo e pronte all’uso nell’eventualità di un blitz delle forze dell’ordine. Lenzini, dal canto suo, ha ancora in mente la scena che si è trovato davanti agli occhi il giorno dell’occupazione: «Davanti a una sola volante della Polizia, c’erano 200 persone sul tetto della clinica con gli estintori».
Un murales all’ingresso dell’ex clinica
Oggi il turno di guardia spetta a Giovanni. Operaio, dopo dieci anni di cantieri in Svizzera occupa Valle Fiorita insieme a moglie e figlia. «Qui non c’è lavoro – sorride amareggiato – l’edilizia è ferma». Accetta di parlare davanti alla portineria, durante l’incessante via vai di inquilini, educati ma guardinghi. Sudamericani, nordafricani, italiani. Una serie di norme regola la convivenza affinché l’autogestione non diventi caos: «Niente furti né spaccio, la musica si spegne alle 23». Ogni occupante deve versare 15 euro al mese, metà per la manutenzione dello stabile e il resto per gli avvocati. «Bisogna partecipare alle manifestazioni e ai picchetti in città». Giovanni racconta gli eventi organizzati all’interno di “Valle ri-fiorita”. Feste, aperitivi, cineforum. Lo ribadiscono anche dal Coordinamento Cittadino di lotta per la casa. «Valle Fiorita non è solo un’occupazione abitativa, ma un luogo liberato nel quartiere; dove sono stati costruiti laboratori, viene portato avanti un progetto di radio online». Una realtà aperta al territorio, insomma. Giovanni ribadisce che «anche la gente della zona è stata aiutata da questa occupazione, chi era in difficoltà è venuto a vivere qui». Le signore dei palazzi vicini non mostrano lo stesso entusiasmo. Lamentano schiamazzi notturni, rumori e il traffico di furgoni che scaricano mobili e attrezzature. I baristi e l’edicolante del quartiere gettano acqua sul fuoco: «Per quanto ne sappiamo noi, gli abitanti di Valle Fiorita non hanno mai dato nessun problema, li vediamo poco». Alcuni li ha visti e se li ricorda, invece, Carlo Lenzini. «Il giorno che il palazzo è stato occupato ho provato a chiedere spiegazioni, mi hanno risposto senza giri di parole: “Ormai ce lo siamo preso e famo come ce pare”».
L’ingresso dell’ex clinica occupata
Nel suo ufficio a due passi dal Foro Italico, Lenzini ripercorre gli ultimi mesi dell’attività di famiglia. È la fine del 2011 quando la clinica chiude per i tagli della Regione. I dipendenti restano fino alla primavera successiva. Intanto i proprietari avviano le pratiche burocratiche del caso, «chiudere un’attività di questo tipo richiede tempo», racconta. Qualcuno dice che la struttura stava per essere riconvertita in un albergo. «Ma non è vero. In quella zona non c’era alcuna possibilità di avviare un’impresa simile». Poi a dicembre lo stabile viene occupato, nonostante già da qualche tempo i proprietari avessero appositamente murato tutte le finestre del piano terra. «Io lavoravo ancora lì dentro – racconta il proprietario – È stato solo per caso se quella mattina non ero presente». E così quasi tutto l’archivio e una parte delle attrezzature mediche restano dentro l’ex clinica. In compenso non ci sono più i letti e i medicinali. Lenzini ha fatto in tempo a portarli via, donati a una onlus che li ha spediti in Africa. Le cartelle cliniche ammassate nei faldoni sono migliaia: nel tempo Valle Fiorita era diventata una realtà di rilievo. Fino a pochi anni prima la struttura contava oltre 270 posti letto, un punto di riferimento per tutto il quartiere. Qui erano stati trasferiti interi reparti del vicino ospedale San Filippo Neri. «Medicina, urologia, chirurgia plastica – ricorda l’imprenditore – anche i medici erano quelli dell’ospedale, noi mettevamo a disposizione la struttura, gli infermieri e la mensa». Una realtà che aveva una ricaduta occupazionale sull’intero quartiere. E che una volta riconvertita avrebbe potuto creare nuovi posti di lavoro. «Non ci sono solo i 180 dipendenti che abbiamo licenziato – spiega Lenzini – Basta pensare all’indotto. I bar vicini alla clinica, le farmacie. Ma anche tutte le piccole ditte fornitrici di cui ci servivamo e che negli anni hanno chiuso». Vittime indirette della spending review imposta dalla crisi economica.
A Roma il contesto di questa vicenda è noto. La presa di Valle Fiorita coincide con la prima fase dello Tsunami Tour, che non è la campagna elettorale di Beppe Grillo ma un’ondata di occupazioni scattate contemporaneamente in diversi punti della città. Un’operazione organizzata il 6 dicembre 2012 sotto la regia dei movimenti di lotta per la casa. Oltre alla clinica di Torrevecchia, vengono conquistati sette palazzi tra il Prenestino e l’Ostiense, Tiburtina e Ponte di Nona. Ad aprile 2013, viene occupato anche un immobile del gruppo Caltagirone nell’estrema periferia est della Capitale. A differenza di Valle Fiorita, questo palazzo sarà sgomberato solo pochi mesi dopo. Per le forze dell’ordine gli ostacoli non sono pochi. Come scrive la Digos in un’informativa dello scorso settembre, solo nei primi nove mesi del 2014 «è stata data esecuzione complessivamente a 31 operazioni di sgombero di altrettanti immobili». Situazioni delicate, non prive di rischi. «Molte di queste operazioni – prosegue il documento – hanno determinato gravi problematiche per l’ordine pubblico, con scontri tra operatori di polizia e manifestanti espressione dei citati movimenti dell’abitare e conseguenti arresti».
Intanto Lenzini non perde tempo. In due anni denuncia più volte la vicenda: polizia, carabinieri, procura. Alla fine porta la sua storia persino a Strasburgo, con un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incontra politici di ogni partito. «Destra, sinistra, ho parlato con tutti». Qualche promessa, tante pacche sulle spalle, ma la situazione non si sblocca. «In tanti – continua il proprietario dell’ex clinica – si mostrano interessati, ma poi nessuno vuole prendersi la responsabilità».
Nel frattempo le spese aumentano. Ecco il vero paradosso di questa vicenda. Dal giorno dell’occupazione a oggi, solo di Imu Lenzini è arrivato a pagare quasi 400mila euro. Invano cerca un confronto con il Campidoglio: il proprietario contatta gli uffici tecnici, parla con diversi dirigenti. Prova a capire se oltre al danno del palazzo sottratto può almeno evitare la beffa delle imposte sull’immobile. Niente da fare. La burocrazia non accetta deroghe. La legge prevede la riduzione al 50 per cento dell’Imu per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati. Lenzini tenta anche questa strada. Nel luglio di due anni inoltra un interpello al Comune di Roma chiedendo il pagamento in misura ridotta. Il Dipartimento Risorse economiche respinge l’istanza. E poi ci sono le bollette. «Non appena l’immobile è stato occupato – racconta Lenzini – abbiamo immediatamente chiesto il distacco delle utenze». Impossibile anche questo. A detta delle società fornitrici, gli operatori non riescono ad accedere nella struttura. Eppure, curiosamente, all’interno dell’immobile c’è una cabina di trasformazione dell’energia elettrica ad alta tensione che serve anche i palazzi limitrofi. Persino la chiesa dall’altra parte della strada. «Intanto Acea ed Enel mi hanno appena recapitato un decreto ingiuntivo di circa 100mila euro» allarga le braccia il proprietario. È il corrispettivo delle bollette dell’acqua e della luce mai pagate. A queste si aggiungono le spese legali, un altro conto che supera i 100mila euro.
A fronte di tanti oneri l’imprenditore resta senza diritti. Eppure nell’agosto 2013 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma aveva emesso un decreto di sequestro preventivo dell’ex casa di cura. Un via libera a cui non segue alcun intervento della forza pubblica. Nel settembre 2013 il Comitato per l’ordine e la sicurezza provinciale prende atto «dell’impossibilità di procedere alle operazioni di sgombero stante la mancanza di fondi da parte del Comune di Roma per l’assistenza agli occupanti». Il Campidoglio non ha i soldi per l’emergenza abitativa? La situazione resta sulle spalle del privato. Passano altri mesi di silenzio. Lo scorso settembre, in una comunicazione diretta alla Procura di Roma, la Digos scrive: «Considerato lo spessore assunto dal fenomeno, l’esecuzione delle operazioni di sgombero – anche volte all’attuazione di decreti di sequestro preventivo – richiede un’attenta pianificazione sia per le implicazioni di ordine pubblico che per l’esigenza di assicurare la necessaria assistenza ai soggetti che versino in situazioni di disagio sociale, tra cui in particolare donne e minori, con il coinvolgimento delle competenti strutture comunali». In poche parole, a Lenzini non resta che attendere.