Entro tre mesi conosceremo il nome della località italiana in cui sarà costruito il Deposito unico nazionale delle scorie nucleari. Venerdì scorso la Sogin, società pubblica incaricata dello smantellamento dei reattori attivi nello Stivale sin dal 1987, ha consegnato all’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) la mappa in cui sono indicate le aree potenzialmente idonee. Sull’elenco vige la più stretta segretezza. Spetterà ora all’agenzia del ministero dell’Ambiente verificare la correttezza dei suggerimenti forniti da Sogin.
La procedura è precisa e completamente regolata dalla legge; entro due mesi l’Ispra dovrà adottare una decisione, nei successivi trenta giorni arriverà il nullaosta da parte dei ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente.
La notizia ha causato una vera e propria levata di scudi nei territori in cui potrebbe essere realizzato il deposito di rifiuti radioattivi. L’argomento è di estrema delicatezza ed è sempre in grado di risvegliare riflessi pavloviani negli ultras dell’ambientalismo o nei complottisti in servizio permanente. Produrre energia nucleare non è sicuramente immune da rischi ma sarebbe utile ricordare la presenza di centrali straniere lungo tutti i confini nazionali e la presenza di settantacinquemila metri cubi di rifiuti a bassa e media intensità presenti sul suolo italiano.
In base alle caratteristiche geologiche richieste dalla normativa, si pensa che la scelta possa ricadere sulla Sardegna, sulla Basilicata, sulla Puglia o su alcune zone del Veneto. La politica locale ha fatto sentire la propria voce soprattutto in Sardegna. L’isola fu già protagonista di una dura lotta contro lo Stato nei primi anni Duemila, quando qualcuno ipotizzò di realizzare il sito tra i nuraghi e le montagne di granito. Manifestazioni e proteste che qualche anno dopo si ripeterono a Scanzano Jonico, in Basilicata.
La sindrome Nimby – Not in my backyard, malattia che colpisce chiunque non voglia che qualcosa sia realizzato nei pressi del suo cortile – rischia di diventare pandemica anche nelle prossime settimane. Secondo il deputato Mauro Pili, ex presidente della giunta regionale sotto le insegne di Forza Italia, la Sardegna sarebbe già stata scelta e non ci sarebbe via di scampo. L’ex azzurro, oggi a capo del movimento autonomista Unidos, ritiene che le caratteristiche individuate dalle autorità non siano altro che un identikit della morfologia geologica sarda.
Anche la giunta regionale guidata dall’economista Francesco Pigliaru ha colto la palla al balzo per rivendicare le prerogative riconosciute dallo Statuto speciale. «Vigiliamo con grande attenzione su ciò che avviene a proposito del sito nazionale per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. Come più volte ribadito, anche in questo caso faremo valere l’autonomia della Sardegna, affermando il nostro potere decisionale sul territorio sardo e tenendo conto della volontà delle comunità», ha dichiarato l’assessore regionale all’Ambiente, Donatella Spano.
Parole riprese da tutti le forze politiche presenti in consiglio regionale, dagli esponenti della galassia indipendentista e persino dai vertici dei sindacati confederali.
Nessuno ha però mai pensato di edificare l’importante infrastruttura senza interpellare le popolazioni coinvolte. La normativa nazionale prevede che prima della conclusione dell’iter decisionale ci si confronti con tutte le amministrazioni regionali e locali, consultazione che si concluderà con un importante seminario nazionale organizzato dalla Sogin e dai ministeri coinvolti. Le scelte del governo potranno inoltre essere integrate dalle autocandidature dei comuni interessati a dare ospitalità ai fusti di uranio e plutonio.
Opzione ricordata nelle ultime ore anche dal numero uno dell’Ispra, Stefano La Porta. Le associazioni ambientaliste potranno inoltre agire di fronte ai Tribunali amministrativi regionali per lamentare violazioni di legge ed eccessi di potere in grado di mettere in pericolo l’ambiente e la salute pubblica. Ricorsi in grado di disinnescare il ruolino di marcia messo nero su bianco dai ministeri.
La realizzazione di questa importante infrastruttura potrebbe rappresentare un’opportunità di sviluppo per tante aree del Paese in forte difficoltà. Stiamo parlando di uno dei più importanti interventi pubblici in economia degli ultimi decenni. Secondo le stime diffuse dalla Sogin si stima un investimento complessivo di circa 1,5 miliardi di euro per la realizzazione, circa 1.500 occupati l’anno per quattro anni e 700 posti di lavoro per la gestione a regime.
Il nome della società pubblica dovrebbe poi rappresentare una garanzia, la Sogin è uno dei leader mondiali nel comparto del decommissioning dei vecchi reattori nucleari. Attività in grado di dimostrare l’eccellenza italiana, primato causato anche alla necessità di dover smantellare i reattori spenti dal referendum indetto dopo l’incidente di Chernobyl.
La politica locale e quella nazionale dovrebbe affrontare il problema senza alzare inutili polveroni demagogici. I rifiuti radioattivi vengono generati in tantissimi processi industriali e ospedalieri e non ha senso continuare ad andare avanti senza una chiara politica di gestione degli scarti. Scorie che oggi vengono conservate con standard di sicurezza inferiori rispetto a quanto accade negli altri Paesi dell’Unione europea.
L’Italia è infatti uno dei pochi Stati dell’Ue a non essersi ancora dotata di un Deposito unico nazionale, e continuare a non farlo ci esporrebbe al rischio di procedure di infrazione in sede comunitaria. Una mancanza che non fa altro che portare verso l’alto le tariffe energetiche; lo smantellamento dei vecchi reattori e il trattamento del combustibile nucleare vengono infatti pagati interamente dallo Stato e dai titolari di un contratto per la fornitura di energia elettrica.
I rifiuti radioattivi sono già tra noi, con l’unica differenza che sono distribuiti su tutto il territorio nazionale e, in particolare, nelle vecchie centrali di Trino Vercellese, Caorso e Montalto di Castro.
Gestirli con criteri moderni e industriali sarebbe in grado di generare economie di non poco momento.
Farsi sopraffare dalla sindrome Nimby sarebbe davvero poco utile. Continuare a nascondere la testa sotto la sabbia nascondendo la “polvere atomica” sotto al tappeto non porterà lontano. I nostri politici dovrebbero farlo comprendere ai cittadini. Sino a questo momento hanno preferito impugnare megafoni e reggere striscioni.