Il maledetto Midwest

Il maledetto Midwest

Indianapolis non passerà alla storia come la città più bella d’America. Nemmeno come la più viva dal punto di vista culturale. Non è una città tipicamente ispiratrice e la maggior parte degli europei (ma anche degli americani) la ricorda soprattutto per una gara di automobili che corrono in circolo. Eppure, nel 1986 Kurt Vonnegut, che a Indianapolis era nato e cresciuto, diceva: «Tutte le mie battute sono Indianapolis. Il mio carattere è Indianapolis. Le mie adenoidi sono Indianapolis. Se mai separassi me stesso da Indianapolis, non avrei più niente da scrivere. Quello che piace alla gente di me è Indianapolis». No, non c’è niente di buono a Indianapolis, se non si tiene conto dell’ispirazione di quello che Dave Eggers ha definito il “Mark Twain hippie”. E non c’è niente di buono St.Paul, Minnesota. Non c’è niente di buono a St. Louis e nemmeno in tutto il dannato Wisconsin. Non si è mai sentito parlare della frenetica vita intellettuale dell’Ohio, eppure Winesburg dà il nome a una delle più importanti raccolte di racconti mai scritte nella storia della letteratura, per mano di Sherwood Anderson. Senza il Kansas e la sua brutalità non avremmo avuto A sangue freddo e senza Detroit probabilmente Jeffrey Eugenides non avrebbe mai scritto Middlesex, precludendosi il Pulitzer.

Il Midwest è una tavola piatta sulla quale ogni tanto svettano i centri di qualche città dal sapore decadente, bucherellata dai laghi a Nord-Est e tagliata in due dal Mississippi. Il Nebraska è una distesa di campi di mais, il South Dakota una crosta di alture brulle, città come Milwakee e Cleveland non fanno che sporcare l’orizzonte e solo Chicago rimane a tenere testa a New York, con il suo blues e il suo soul. Per il resto è tutta una questione di speranze infrante e vecchi valori dimenticati, tra inverni impietosi ed estati roventi. Bettole scure che servono birra in lattina e mietitrebbiatrici che somigliano a leviatani nella nebbia della polvere di grano: Cincinnati, Lousville, Des Moines.

Libertà è uscito nel 2010 (Einaudi, tradotto da Silvia Pareschi) e ha dipinto un pezzo di Minnesota. Franzen, come uno dei suoi protagonisti, è nato a St.Louis, Missouri, e il romanzo è ambientato per la maggior parte a St.Paul, ma c’è qualcosa che ne frena la lingua, che non permette ancora all’identità geografica di filtrare completamente attraverso le maglie della narrazione, come è capitato per molti scrittori del Midwest fino a questo momento. La geografia per la letteratura statunitense è un elemento fondamentale: la connotazione precisa di un luogo particolare non determina soltanto l’ambientazione, ma costruisce le sensazioni e influenza a tal punto il carattere dei personaggi da risultare la caratteristica fondamentale e distintiva del romanzo. Spesso basta l’ambientazione a definire un genere, ancora più precisamente della trama o del periodo storico: “Southern Gothic”, “Western”, “New York Stories”, sono definizioni che bastano a se stesse e ai lettori. Il Midwest per molto tempo ha subìto la sua genericità, senza influenzare più di tanto lo stile dei propri scrittori. Un romanzo straordinario come Libertà, a ben pensarci, avrebbe potuto essere ambientato in California senza abbassare di una virgola la portata della sua efficacia. Le cose stanno cambiando.

A parte che per la casa natale di John Wayne a Winterset e la contea di Madison, l’Iowa è ricordato a livello letterario per ospitare la più importante scuola di scrittura del Paese: l’Iowa Writers’ Workshop, dalle parti di Iowa City. Qui si sono formati Philip Roth, Michael Cunningham, Paul Harding, Jane Smiley. Qui ha insegnato John Cheever, anche se sembra che passasse la maggior parte del tempo a bere in compagnia del suo allievo Raymond Carver, battezzando come si deve la nascita del minimalismo. Marilynne Robinson è nata in Idaho, ma ha passato qui gli anni più importanti della sua produzione e proprio allo stato dell’Iowa ha dedicato Gilead (Einaudi, 2008 tradotto da Eva Kampmann), che le è valso il Pulitzer nel 2005. È come se il Workshop catalizzasse lo spirito letterario del Midwest, riflettendone la tendenza a seguire una sorta di diaspora stilistica che finisce per diluire la sua voce con quella del resto del Paese, lasciando che si perda e affiori sono in rare occasioni. Così è stato per La giungla, di Upton Sinclair, ambientato a Chicago, Quelli, di Joyce Carol Oates (Rizzoli, 1969 tradotto da Bruno Oddera), a Detroit e L’occhio più azzurro, di Toni Morrison (Frassinelli, 1998) che dipinge lo scenario di Lorain, Ohio, città natale dell’autrice. Il Midwest, fino a un certo punto, è stato un suono che si perde nel marasma di una Big Band dell’epoca d’oro. Una melodia sotterranea in grado di dare corpo al brano ma non a sostenersi da sola.

«Per tutta la vita ho visto gente andarsene da qui» scrive David Giffels della sua città natale, Akron, Ohio, «è quello che tocca a noi che siamo rimasti». Giffels ha pubblicato nel 2014 una raccolta di saggi intitolata The Hard Way on Purpose (ancora inedita in Italia), che nel suo raccontare l’Ohio con sguardo disincantato e senza risparmiarsi un po’ di malinconia, si fa profeta di una nuova condizione letteraria. È vero, la gente continua ad andarsene. Continuano a scappare dal nulla chilometrico di quella che un tempo veniva conosciuta come “Rusty Belt”, a cercare di dimenticarsi del fallimento di Detroit e del fatto che Kansas City venga ricordata esclusivamente per le sue alette di pollo — sempre un gradino sotto Buffalo. Però c’è anche chi rimane e ultimamente ha imparato a raccontare il suo mondo per com’è, non più per come vorrebbe che fosse.

Uno dei libri più belli usciti nel 2014 — il più bello, per quanto mi riguarda — è ambientato nel mezzo dell’assoluto nulla: Eau Claire, Wisconsin. Finalmente, dopo anni di mediazione macchiata di vergogna per la mancanza di tutto, Shotgun Lovesongs (Marsilio, scovato e tradotto meravigliosamente da Claudia Durastanti) restituisce non soltanto la dignità, ma la bellezza ruvida e scarna all’American Heartland: quella macchia centrale si Stati che non è bagnata da nessun mare, divisa da confini squadrati e innaturali, costruita su industrie che nella stragrande maggioranza dei casi non ci sono più. Nickolas Butler, che qui è nato e cresciuto, scrive di un Wisconsin romantico e risoluto. Non ci si lamenta della solitudine e della lontananza, le si accetta come condizioni uniche e relative. Nel Wisconsin di Butler, tra puck-up e erba, stivali e vecchi silos in rovina, si tende a tornare. È il nuovo sogno americano, che rispolvera i vecchi orizzonti immensi e le praterie sterminate per riallacciarsi con i valori semplici del centro non più industrializzato. «Devo tornare dove posso essere libero, New York City mi sta uccidendo» canta Ray Lamontagne, un altro figlio del grande centro.

Il cinema è già passato per queste strade, e così la televisione. Penso a Fargo e al suo North Dakota completamente ghiacciato, identico al Minnesota della serie omonima, e a Nebraska, di Alexander Payne. Ora sembra che la nuova letteratura americana abbia la tendenza agli spazi aperti e sia destinata a ridare voce a quegli Stati che l’avevano perduta. Il Midwest di scrittori come Butler e Giffels si sente, deciso e sprezzante. Acuto come il falsetto di Justin Vernon — anche lui di Eau Claire —, che spicca sempre al di sopra del tappeto musicale, per quanto ricco ed elaborato. Il nuovo immaginario, tessuto su uno stile asciutto e profondo, è composto da voci che vengono da qui, quelle di chi non se n’è mai andato: Lindsay Hunter, Aleksander Hemon, Adam Levin, Kyle Minor. Nomi che presto renderanno palese quanto il Midwest stia diventando importante per la letteratura americana, attratta ogni giorno di più dal ritorno ai valori rurali. A Detroit costruiscono case per scrittori , in Missouri nascono riviste indipendenti come PANK magazine, in Iowa si formano scrittori e poeti ben avviati verso il riconoscimento internazionale. Gli spazi aperti restituiscono l’ispirazione a chi l’aveva persa aggrappandosi a Brooklyn. Il maledetto Midwest si prepara a fare la differenza.

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