L’unica arma europea contro la radicalizzazione è la prevenzione. Parola di Omar Ramadan, a capo del Ran, il network anti radicalizzazione creato dalla Commissione Ue nel 2011. Oltre mille le associazioni a farne parte nei 28 Paesi membri. «A rendere l’Europa un soggetto vulnerabile in questi mesi – spiega Ramadan – è soprattutto la sua vicinanza con alcuni teatri di guerra. In particolare la Siria e l’Iraq. Ma anche la facilità con la quale è possibile raggiungere un Paese come la Turchia, porta d’ingresso per migliaia di potenziali “reclute” verso la jihad. Tra le capitali europee e Istanbul ci sono decine di voli quotidiani, cosa che facilita le partenze, i ritorni e quindi l’incremento del pericolo per l’Europa. Rispetto ad altri scenari di guerra del passato, dove pure si è assistito alla chiamata internazionale del terrore, penso ad esempio alla Cecenia o all’Afghanistan, la logistica e gli scambi sono più semplici. La vicinanza con le operazioni in Siria e Iraq si riflette anche in una maggiore riuscita della propaganda, soprattutto di un gruppo come l’Isis, percepito in modo vincente da alcuni giovani europei. Detto questo la radicalizzazione è presente anche negli Stati Uniti e in altri Paesi del mondo».
Ma quanto ha a che fare la religione con la radicalizzazione europea?
Poco o niente. La religione è spesso utilizzata come una scusa. I giovani sensibili al fascino della radicalizzazione non sono stati educati dalle loro famiglie di origine per diventare terroristi. La religione che gli è stata insegnata si basa su principi completamente diversi. La stragrande maggioranza della comunità musulmana non è coinvolta nel processo di radicalizzazione e anzi lo rifiuta.
Sono coinvolti tre fattori: la giovinezza, l’incontro con una figura carismatica e la debolezza
Di cosa si nutre allora la radicalizzazione nelle nostre capitali?
Sulla base della nostra esperienza sono tre i fattori, sempre concomitanti, che giocano nel processo di radicalizzazione. Il primo è la giovinezza. Le reclute sono sempre giovani, spesso con problemi familiari, con la giustizia. Giovani che potremmo definire a rischio, esclusi dal tessuto sociale, dal quale restano profondamente delusi. Il secondo è l’incontro con una figura carismatica. Si tratta quasi sempre di una persona più adulta, con un’esperienza alle spalle “certificata”, manifestamente anti-occidentale, in grado di offrire un’occasione di rivincita. Terzo è il verificarsi di un momento di debolezza. La maggior parte dei ragazzi, pur attratti dalle idee radicali e dai predicatori, non sempre sono pronti ad abbracciare le armi o recarsi nei teatri di guerra. Spesso cambiano idea e decidono di passare ai fatti a seguito di eventi significativi, che li rendono più vulnerabili alla chiamata alla jihad.
Quali armi possiede l’Europa per combattere la radicalizzazione? Gli attentati di Parigi serviranno da precedente per cambiare strategia?
Sicuramente si assisterà al rafforzamento della repressione, all’introduzione di misure restrittive. La cui utilità può non essere messa in dubbio. Credo, però, che dare maggiori armi alla polizia e aumentare i controlli servirà a evitare nuovi attacchi o a ridurne la probabilità, ma non eliminerà il problema. L’unica arma nelle mani dei governi europei, così come della stessa Ue è la prevenzione. Soltanto agendo sull’integrazione dei soggetti a rischio, attraverso strutture adeguate come centri d’ascolto o anche un sistema educativo e formativo attento si potranno indebolire i presupposti che nutrono lo svilupparsi e il diffondersi della radicalizzazione.
Si deve intervenire nelle fasi iniziali, durante il primo avvicinamento dei giovani agli ambienti radicali, quando non davanti a noi non ci sono terroristi, ma persone in cerca di sostegno e ascolto. Ed è quello che attraverso Ran abbiamo iniziato a fare.