L’anno della battaglia sul Pil potenziale

L’anno della battaglia sul Pil potenziale

Il 2015 sarà un anno particolarmente intenso per il governo Renzi e soprattutto per Il ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan. A marzo, come noto, la Commissione europea vaglierà nuovamente i piani di stabilità nazionali, in un’ottica di medio-lungo periodo. Le preoccupazioni riguardano, come sempre, la sostenibilità del nostro debito pubblico, in una situazione di bassa crescita nominale del prodotto italiano, che rende molto difficile il contenimento del rapporto debito/Pil, tallone di Achille di un’economia stagnante e con pochissimo grado d’innovazione. L’indicatore utilizzato dalla Commissione per valutare la nostra posizione sarà quello del saldo strutturale di bilancio, ovvero l’indebitamento netto delle Pubbliche amministrazioni, al netto delle misure una tantum e corretto per il ciclo economico.

La carta che via XX Settembre cercherà di giocare, probabilmente anche su input dell’ex Commissario per la Spending Review Cottarelli – che trattò dell’argomento a Novembre su La Voce  – è quella della difficoltà intrinseca nella misurazione di una delle variabili fondamentali per calcolare il saldo aggiustato per il ciclo, il noto Pil potenziale.

Vediamo molto brevemente di cosa si tratta, e il perché della sua importanza. Il saldo di bilancio nominale, corretto per le una tantum, deve essere rapportato, secondo i parametri fissati dalla Ue, al Pil che si osserverebbe in assenza del ciclo economico avverso: la ratio è quella di evitare che le misure anticicliche incorporate autonomamente nel bilancio siano considerate come “aggredibili” nella semplice ottica di preservare il saldo di bilancio. Una delle critiche più fondate e pungenti ai famosi parametri di Maastricht fu, infatti, quella di non tenere conto che il saldo di bilancio tende autonomamente a peggiorare in una recessione, per poi riassorbirsi una volta che l’attività economica torna alla sua crescita “normale” o di lungo periodo. Aggredire il bilancio, tramite tagli di spesa o nuove tasse, senza considerare l’impatto ciclico del prodotto, porterebbe, perciò, a una spirale negativa fatta di misure restrittive che auto-alimentano la recessione. La correzione per il ciclo, è giusto ricordarlo, serve proprio a questo proposito.

L’austerity avrebbe un effetto negativo non solo sul Pil osservato, ma anche sul potenziale di crescita di medio-lungo periodo

Di cosa si lamenta allora il nostro ministro Padoan, che da tecnico alla guida del Dipartimento Economico dell’Ocse ben conosce la rilevanza di queste problematiche? Ebbene, la tesi prima esposta da Cottarelli, e poi approfondita dal Mef, è che le politiche di bilancio imposte dalla Commissione, passate alla cronaca con il nome di austerity, avrebbero un effetto negativo non solo sul Pil osservato – cosa appunto evitabile utilizzando l’indicatore aggiustato per il ciclo, ma anche sul Pil potenziale, tramite un effetto di “isteresi” che si sviluppa attraverso una stagnazione della domanda aggregata: meno investimenti e una disoccupazione in aumento intaccherebbero anche il potenziale di crescita di medio-lungo periodo. Il secondo effetto citato, quello della disoccupazione, è particolarmente allarmante in una fase prolungata di recessione, in quanto è ben noto che il capitale di conoscenze e competenze dei disoccupati di lungo periodo tende ad erodersi, rendendoli meno produttivi e meno occupabili, con effetti negativi sulla crescita potenziale del prodotto.

Con l’austerity il capitale di competenze dei disoccupati di lungo periodo tende ad erodersi, rendendoli meno produttivi e occupabili

Sarebbe facile polemizzare ricordando che a capo dell’Ocse Padoan era stato un convinto sostenitore delle politiche di austerità. D’altra parte, di fronte a dati in continuo peggioramento, è lecito e intelligente cambiare avviso e idea, sebbene la teoria dell’isteresi della disoccupazione – ad essere onesti – non è nata l’altro ieri, ma è nota almeno dagli anni 80, dopo che Olivier Blanchard e Lawrence Summers svilupparono il concetto, proprio in relazione ai paesi Europei, in un noto paper del 1986. Meglio tardi che mai, direbbe qualcuno. Eppure, a ben vedere, e come già ricordato più volte sulle pagine stesse de Linkiesta il problema italiano non è nato l’altro ieri, ed è da ricercarsi nella scarsissima crescita della produttività multifattoriale – che include il progresso tecnico, organizzativo e un residuo dovuto ad errori di misurazione –  in pratica stagnante da metà anni 90. È la mancanza d’innovazione il vero male dell’economia italiana.

È, dunque, certamente vero che la misurazione del Pil potenziale può indurre in errore i policy makers che non ne tengano in considerazione l’alea con cui tale variabile non osservabile è stimata. Ad essere onesti, secondo le ultime stime dell’Ocse, l’Italia si troverebbe già in una situazione di surplus strutturale di bilancio, che varia dallo 0,4 allo 0,1% del Pil potenziale a seconda della stima utilizzata. Vi è dunque spazio per supportare la tesi del nostro Governo di fronte alla Commissione.

Secondo l’Ocse l’Italia sarebbe già in una situazione di surplus strutturale di bilancio, che varia dallo 0,4 allo 0,1% del Pil potenziale 

Peraltro, lo ricordiamo ancora, senza riforme che garantiscano una dinamica della produttività totale dei fattori più pronunciata, la nostra economia non potrà essere rilanciata in modo duraturo e sostenuto. Purtroppo, ad anni di negligenze sul fronte delle riforme della nostra politica – soprattutto dopo l’entrata nell’Euro – si è aggiunta una crisi ciclica profonda che, come ricordato, non solo ha momentaneamente fiaccato il nostro prodotto, ma ha anche corroso il già scarso capitale umano della nostra forza lavoro. Quasi il 61% dei 3 milioni di disoccupati lo sono da più di un anno, secondo Istat. Sono due milioni di persone che da più di un anno non hanno un lavoro. Una cifra mostruosa.

Non si può dunque nascondere che la situazione sia difficilissima, e le stime della crescita delle Organizzazioni Internazionali e del Governo, prevista attorno allo 0,5% nel 2015, stanno lì a dimostrarlo. Inoltre, utilizzando lo stesso metodo della Commissione, è il governo stesso a indicare che il Pil potenziale sarà sostanzialmente piatto nei tre anni a venire, come si può leggere nel Documento Programmatico di Bilancio del 2015. Chi scrive è dell’opinione che la Commissione Ue mostrerà la flessibilità necessaria per evitare una stretta di bilancio che sarebbe, oggi, politicamente ed economicamente inaccettabile. Tuttavia, la battaglia per la crescita di medio periodo non passa per la rivisitazione tecnica di una variabile non osservata. Senza innovazione, ma con il solo grado di conoscenza tecnica – che in Europa è un valore non un limite da irridere come spesso Renzi ha mostrato di voler fare per ragioni politiche di bottega – potremo anche scampare alle forche caudine dell’esame di marzo. Ma non riavremo la crescita che il nostro Paese necessita disperatamente.

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