Sono cinquemila i potenziali terroristi pronti ad agire in Europa, secondo il SitCen (Centro di situazione della UE), che fornisce servizi di intelligence all’interno dell’Unione Europea. Cinquemila persone che sono cresciute e hanno studiato nei nostri Paesi. Le cui azioni, secondo quanto dichiarato dallo stesso coordinatore antiterrorismo Ue Gilles De Kerchove, sono impossibili da prevedere.
L’Europa è oggi l’area più esposta al rischio terrorismo. Almeno secondo il think tank Eurasia Group, che pone il Vecchio Continente in cima alla lista delle aree sensibili. Questo essenzialmente per due fattori: il numero dei cosiddetti foreign fighters, i combattenti di ritorno dalle zone di guerra – principalmente Siria e Iraq – e quello dei cosiddetti homegrown terrorists, terroristi nati e cresciuti all’interno dei confini comunitari, che non hanno mai avuto alcuna esperienza sul campo. Fonti della Commissione Ue ritengono proprio questi ultimi il principale pericolo per la sicurezza delle nostre società, perché difficili da individuare, seguire e monitorare. Erano homegrown terrorists il più piccolo dei fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, due degli autori dei recenti attacchi di Parigi.
Ma quali armi e strategie possiede l’Unione Europea per contrastare il terrorismo? Molto poche. E la ragione risiede nella mai completata politica estera e di difesa comune. In base ai principi attuali, infatti, la sicurezza resta un affare interno. Ma quanto questo approccio può risultare efficace davanti all’internazionalità del terrore? Non lo è. E ad ammetterlo sono proprio alcuni funzionari della Commissione Ue. In occasione di un incontro con la stampa i funzionari hanno puntato il dito contro l’inerzia degli Stati membri, poco propensi a voler davvero collaborare a una strategia comune contro il terrorismo.
Del resto una strategia europea anti terrore è stata lanciata già nel 2005, dopo gli attentati di Madrid e Londra. Si basa su quattro pilastri principali:prevenzione, per la quale è stato creato RAN, il network anti-radicalizzazione, composto da mille organizzazioni, Ong e associazioni impegnate sul territorio in tutti e 28 i Paesi membri; protezione, ovvero ridurre il livello di vulnerabilità degli obiettivi europei; perseguimento di terroristi;e capacità di risposta, ovvero, fatta salva l’impossibilità di ridurre a zero il rischio attentati, si deve essere pronti a rispondere efficacemente in caso di attacco.
Gli strumenti per mettere in atto i quattro pilastri, però, sono tutt’altro che semplici da utilizzare. Soprattutto in assenza di una reale cooperazione tra gli Stati membri. È questa la denuncia che arriva dalla Commissione Ue, che seppure avendo mezzi e risorse a disposizione non riesce a garantire il giusto livello di efficacia alle proprie iniziative.
Per trovare una conferma a questo è sufficiente leggere la comunicazione inviata dall’esecutivo Ue nel 2011 all’Europarlamento sullo stato dell’implementazione della strategia antiterrorismo, stilata nel 2005. A fronte di 740 milioni di euro stanziati, la Commissione nel 2011 denuncia un loro sottoutilizzo da parte degli Stati membri per programmi presentati dalle capitali e mai approvati, oppure abrogati in corso d’opera.
Considerando il tipo di programmi comunitari – quello del 2008 per il miglioramento della sicurezza degli esplosivi o quello del 2009 contro le minacce di attacchi chimici, biologici e nucleari – in cui s’inseriscono i progetti nazionali abrogati, i dubbi sulla reale efficace della strategia comunitaria antiterrorismo si rafforzano.
A questo si aggiunge la reticenza delle 28 capitali a condividere le proprie banche dati sui cittadini sospetti, atteggiamento che danneggia l’efficacia del sistema Schengen II, ma anche lo scarso impegno dei servizi segreti nazionali a una maggiore collaborazione con SitCen, l’intelligence europea.
Ad oggi, tra l’altro, gran parte delle attività alle frontiere è rivolta al controllo e monitoraggio dei migranti che regolarmente o clandestinamente cercano di arrivare in Europa, mentre sempre più dati confermano che la minaccia terroristica è interna e non alimentata dalle migrazioni.
A complicare il quadro è anche la frammentazione di ruoli e compiti tra le tre istituzioni. Il sovrapporsi delle competenze aumenta ritardi e rallenta la capacità di risposta comunitaria. Un esempio è il braccio di ferro sull’adozione di un registro dati – PNR – dei passeggeri aerei. Proposto dall’esecutivo europeo nel 2011, oggi è bloccato dal Parlamento Ue, che rifiuta di approvare una norma ritenuta violatrice della privacy.
Il dibattito sul registro dati dei passeggeri aerei s’inserisce in quello più ampio sollevato a seguito degli attacchi parigini e relativo alla necessità di una stretta sulle libertà individuali dei cittadini comunitari. Dalla violazione della segretezza delle comunicazioni elettroniche – lo stesso David Cameron ha annunciato che in caso di rielezione permetterà l’accesso ai contenuti delle app più utilizzate (da WhatsApp a iMessage) – al pericolo del restringimento della libertà di circolazione. A poche ore dai fatti di Parigi alcune capitali europee, infatti, si sono dette pronte a reintrodurre i controlli alle frontiere interne tra Stati membri. Con buona pace dello spirito comunitario.