La guerra tra poveri è tra noi. I contratti stabili sono un ricordo o un privilegio di chi ha più di 40 anni e in molti settori, soprattutto dei servizi, la concorrenza è al ribasso. Nel far west delle collaborazioni e delle false partite Iva (oggi solo il 20% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato), per non parlare del lavoro nero, chi accetta la paga più bassa ottiene il contratto e mette fuori gioco gli altri, a costo di spaccarsi la schiena per i turni massacranti. Spesso chi accetta è immigrato o di origine straniera. Il bersaglio perfetto per chi soffia sul fuoco e lucra sul conflitto sociale, oggi come nei decenni passati.
Ma se questa è una realtà su cui non si può chiudere gli occhi, bisogna anche mettersi in testa una cosa: il lavoro, assieme alla scuola, è nella maggioranza dei casi l’unico luogo per un’integrazione tra culture diverse. Chi passa la giornata spalla a spalla impara a cooperare e a conoscersi. L’integrazione è inevitabile e nei fatti. Ma non è un processo spontaneo, va gestito. Anche nell’interesse dei datori di lavoro.
Integrazione? Solo se reciproca
Da dove si parte? Da un po’ di teoria. «Bisogna cominciare dal concetto di integrazione – risponde il sociologo Pietro Basso, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove dirige il master sull’Integrazione -. Quanto un Paese cambia così profondamente come sta cambiando l’Italia da 30 anni, attraverso l’arrivo di popolazioni straniere da tutto il mondo, il processo sociale non può essere di integrazione a senso unico. Deve essere di integrazione reciproca. C’è una trasformazione che riguarda sia chi arriva sia le popolazioni autoctone, che vivono un processo di internazionalizzazione». Non è possibile, quindi «dire: “voi dovete perdere tutto quello che avete” – continua Basso -: non solo avete dovuto trasferirvi, ma dovete tagliare tutti i legami con il passato. È una violenza verso persone che oggi danno il 10% del Pil italiano. In questo modo si alimenta solo rancore e rabbia».
Per Basso il percorso è complesso, «come tutte le trasformazioni epocali richiede un’epoca», e per portarlo avanti «non basta un atteggiamento positivo». Ci sono scelte politiche: «più si realizza discriminazione e disconoscimento, più si creano le premesse per la diffidenza e la violenza – dice Basso -. Più c’è integrazione reciproca e riconoscimento più lo scambio avviene, con difficoltà ma senza antagonismo. La base è partire dall’idea che la gran parte degli stranieri, come la gran parte degli italiani, vive del proprio lavoro, è venuta qui per stare meglio, avere una vita dignitosa e avere prospettive per i figli».
Le politiche: dalle mense alle ferie
La traduzione in pratica di questo approccio è già venuta in molte realtà. «Alcuni imprenditori sono molto più avanti della maggioranza del mondo politico – commenta Basso -. In un certo numero di fabbriche c’è per esempio l’attenzione al cibo, con menu differenziati nelle mense. È una scelta spesso criticata, ma che ritengo corretta».
Tra gli altri strumenti ci sono i corsi di italiano per stranieri e una gestione attenta delle ferie: le persone di origine straniera potrebbero avere bisogno di periodi più lunghi, magari di un mese o oltre, magari da prendere ogni due anni. Ma soprattutto a fare la differenza, per il sociologo, è il mansionamento. «In generale c’è un demansionamento di queste popolazioni. Ci sono tanti operai specializzati, in edilizia come nel settore metalmeccanico, che fanno lavori da operai generici. Gli imprenditori capaci di riconoscere il merito fanno una cosa gradita ai lavoratori, stranieri come italiani. È un riconoscimento, non una concessione, che è anche nell’interesse dell’azienda».
La cultura d’impresa: partire dai vertici
Prima di passare alla pratica è però meglio avere una strategia aziendale. «L’integrazione non avviene in modo spontaneo. Sappiamo che il pregiudizio e lo stereotipo, in maniera consapevole o inconsapevole, sono presenti sui posti di lavoro», dice Andrea Notarnicola, sociologo del lavoro, partner della società di consulenza Newton-Gruppo 24 Ore. Il lavoro, continua, va fatto su tre fronti: di cultura d’impresa, formativo e organizzativo.
Si comincia dalla testa, cioè dagli amministratori delegati e dai consigli di amministrazione. «Proprio perchè non è un processo spontaneo – continua -, si deve partire dalla strategia non solo verso i lavoratori, ma anche verso i fornitori e clienti. Le aziende più inclusive sono anche le più competitive, perché ascoltando in modo integrato le persone ne comprendono meglio i bisogni. Pensiamo alle banche, che oggi hanno grandi opportunità dal credito alle piccole imprese gestiti da stranieri».
Poi serve la formazione, che deve essere rivolta a tutti i lavoratori e deve agire su due bersagli: contrastare i pregiudizi e favorire i comportamenti di rispetto. «Il tema è delicato – continua Notarnicola – perché stiamo registrando una caduta dei comportamenti di rispetto, prodotta dall’iperconflittualità e competitività. I soggetti più deboli sono quelli più facilmente esposti alla crisi».
Il terzo punto è organizzativo e riguarda i percorsi di carriera. «Nella mia esperienza vedo tantissime aziende che fanno lavorare molte persone di culture diverse. Quello che avviene è che a un certo punto queste persone crescono. Se a parità di capacità per le posizioni manageriali o di merito scegliamo solo gli italiani, creaiamo situazioni di disaffezione, che possono diventare rabbia. Le aziende fin dall’inizio devono sapere che a un certo punto dovranno dare delle risposte sulla carriera». Secondo Notarnicola, autore del libro “Global Inclusion. Le aziende che cambiano” per Franco Angeli, «le donne, gli stranieri, i giovani e tutti i portatori di diversità sono tutti nella stessa minestra. Il rischio è di cadere sempre, per le scelte, su un italiano, quarantenne, maschio, perfettamente abile ed eterosessuale».
La religione: sterilizzare o valorizzare le differenze?
Oggi, gennaio 2015, dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo e nel negozio kosher di Parigi, la religione è tornata a essere percepita come un problema. L’Islam viene analizzato per capire se possa adattarsi o meno a una società rispettosa dei diritti di donne, omosessuali, credenti di tutte le fedi. Come trattare il tema nei posti di lavoro? «Il tema ha a che fare con l’eguaglianza – risponde Notarnicola -. Se offriamo a determinate persone determinati tipi di opportunità, dobbiamo dare le stesse opportunità agli altri. Per esempio, per le aziende che sono abituate a lavorare sia la domenica sia a Natale, è più facile mostrarsi come un territorio neutro: in una logica globalizzata, tutti si includono in questo modo. Se però un’azienda dà 15 giorni di ferie a Natale, qualcosa dovrebbe riconoscere anche alle altre religioni». In questo contesto, le multinazionali sono facilitate nella gestione dei processi, mentre quelle fortemente radicate in una nazione, «si possono trovare in difficoltà, anche per spiegare perché si fa qualcosa. Per questo la formazione è importante: serve a evitare le discriminazioni al contrario. Tutte le volte che si fa un’operazione di inclusione, c’è qualcuno che si sente danneggiato».
Ma è più opportuno sterilizzare la religione, considerandola un tabù, o valorizzare le differenze? Qui l’esperienza dei Paesi anglosassoni, partiti a gestire il fenomeno molto prima, viene in aiuto. «Negli Stati Uniti – commenta Notarnicola -, la tendenza è duplice: sul piano della comunicazione istituzionale si sterilizzano i messaggi religiosi. Nei messaggi di auguri si dice, per esempio, “buone feste” e non “buon Natale”. Al contempo, però, tendono a organizzare situazioni nelle quali ciascuna comunità può rappresentare se stessa. Per esempio, durante il Natale ortodosso, i lavoratori ortodossi organizzano una festa e invitano gli altri colleghi. Certo, il tema è delicato: può non essere semplice far coesistere un network di dipendenti di una certa religione e allo stesso tempo un network di dipendenti gay. La chiave, per un’azienda, è concentrarsi sul merito e sui talenti, facendone il punto centrale».
Mohamed Saady è il presidente dell’Anolf. Si tratta di un’associazione su scala nazionale e con una forte ramificazione territoriale. È costituita da immigrati ed è nata 24 anni fa in seno alla Cisl. Tra i compiti ha l’assistenza e la rappresentanza dei lavoratori stranieri, ma anche progetti più specifici di mediazione, come l’accoglienza, l’inserimento scolastico e convegni, che mirano anche a iniziative interreligiose. Per Saady quando si parla di religione sui posti di lavoro, non bisogna segmentare ma «partire da una risposta comune a tutti coloro che vivono qui. È necessario – spiega a Linkiesta – individuare una nuova strategia della convivenza, basata sul rispetto delle differenze culturali e sulle pari opportunità. Ma bisogna che si individui un orizzonte di principi e valori che devono essere rivissuti da tutte le comunità». Per Saady questo orizzonte di valori comuni «sono i principi sanciti dalla Costituzione», che vanno messi alla base di tutto. «Sono i principi laici dello Stato – continua -, che prevedono anche il diritto a professare la propria fede religiosa».
Una volta chiariti i principi, secondo Saady, ci sono meccanismi che possono essere contrattati, con le rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro. «Se in un’azienda il 30 o il 70% dei lavoratori hanno delle esigenze dipendenti dalla loro fede, si possono prevedere degli interventi con la contrattazione aziendale. Questo avviene già in molte realtà».
Il sindacato: meriti e limiti
Il presidente dell’Anolf (che come abbiamo detto è legata alal Cisl) rivendica un ruolo centrale dei sindacati nel promuovere l’integrazione. «La Cisl ha espresso la nostra associazione, che negli anni ha dato spazio a cittadini immigrati per esercitare il loro protagonismo e veicolare verso i servizi tutti coloro che avevano bisogno di interventi di carattere sindacale. Ma la Cisl è anche il primo sindacato ad avere avuto una segretaria confederale di origine straniera (Liliana Ocmin, di origine peruviana, eletta nel 2007 coordinatrice nazionale delle Donne della Cisl, ndr) e una segretaria generale di una struttura territoriale, a Latina».
La visione sul ruolo del sindacato è meno idilliaca da parte di Pietro Basso, che da dieci anni ha un laboratorio di ricerca sociale a Venezia che si occupa del rapporto tra immigrati e sindacati. «Il sindacato ha un grande merito – commenta -: è stata la prima istituzione pubblica a dare rappresentanza a persone straniere, che hanno rappresentato non solo gli altri stranieri ma tutti i lavoratori. Oggi ci sono migliaia di delegati di origine straniera nelle aziende». Tuttavia, continua Basso, «se c’è un riconoscimento a livello locale, non è così a livello nazionale. Nell‘ultimo congresso della Cgil c’erano solo due persone di origine straniera nel consiglio nazionale». Inoltre, per Basso, «in un certo numero di casi bisognerebbe contrastare attivamente i pregiudizi e alcuni comportamenti di chiusura dei lavoratori, seppur non frequentissimi. Il sindacato a volte chiude un occhio».
La crisi è il primo ostacolo
Possiamo ragionare di strumenti e approcci culturali, ma se il contesto è sbagliato è tutto inutile. «Il lavoro è chiaramente uno dei canali fondamentali per l’integrazione degli immigrati – commenta a Linkiesta Alberto Martinelli, professore emerito di Scienza Politica e Sociologia all’Università degli Studi di Milano -. Ma una variabile fondamentale sono le condizioni di lavoro: se c’è sfruttamento, lavoro irregolare, mancanza di sicurezza o pagamento dei contributi, ci sarà sicuramente un’esperienza negativa. Se invece il datore di lavoro dà a tutti gli stessi diritti, è diverso, si creano le condizioni per l’integrazione e il rispetto anche dei doveri». L’altra condizione è l’atteggiamento degli altri lavoratori: ci possono essere fenomeni di ghettizzazione, che non necessariamente sono fatti da italiani nei confronti di stranieri.
È poi necessario che i lavoratori stranieri abbiano anche un contesto esterno sereno: ricongiumenti familiari, assistenza sanitaria, istruzione per i figli. Come se la cava l’Italia? «Abbastanza bene – risponde Martinelli -, soprattutto per i ricongiumenti familiari». Ma la caratteristica italiana è una sostanziale mancanza di strategia nazionale, che viene coperta «dall’associazionismo, dal ruolo dei sindacati, delle organizzazioni non governative e delle associazioni di immigrati, se non hanno atteggiamenti di chiusura».
La situazione economica certo non aiuta a fare progressi. «La crisi picchia duro da anni, per italiani e immigrati, e questo crea una maggiore concorrenza al ribasso – commenta Pietro Basso -. Naturalmente i lavoratori sono più in basso degli altri. Sono costretti o si autocostringono ad accettare lavori a condizioni più basse. Quando una lavoratrice italiana vede che ci sono signore straniere che fanno le pulizie per 3-4 euro all’ora, la reazione è di rabbia. Ma al tempo stesso c’è la sensazione di sentirsi stranieri nel proprio Paese». Può essere una condivisione di un destino, ma il successo di movimenti xenofobi in mezza Europa non deve lasciare spazio a troppe illusioni.
Gli imprenditori
Con la recessione che accompagna l’Italia, il numero di lavoratori immigrati che ha perso il lavoro è aumentato di molto. Per questo una risposta è stata l’imprenditoria. «Secondo il sistema informativo Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, anche nel 2014 è continuata la tendenza al ribasso nella richiesta di lavoratori dipendenti immigrati da parte delle imprese – spiega a Linkiesta Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere, l’associazione che rappresenta le Camere di commercio -. La loro quota sul totale delle assunzioni è scesa ormai al 10,6%, mentre solo una decina di anni fa superava il 33,4 per cento. Questo non è dovuto alla scarsa integrazione sul posto di lavoro quanto piuttosto dal fatto che la domanda di lavoratori immigrati nel nostro Paese si è concentrata prevalentemente su figure a bassa qualificazione operanti nei settori più colpiti dalla crisi (edilizia, servizi ecc.)».
L’autoimprenditorialità, in questo quadro, per Gagliardi «si è dimostrata una leva importante di integrazione. Nell’ultimo decennio le imprese a guida immigrata registrate nel Registro delle imprese delle Camere di Commercio sono costantemente aumentate. A fine 2014 si attestano intorno alle 500mila unità, con un’incidenza pari a circa il 9% del totale. Si tratta per più dell’80% di imprese individuali. Aumentano però anche le società di capitali (circa 10% delle imprese immigrate), le cooperative e le società di persone».
Quali sono gli effetti di questa crescita sui rapporti tra italiani e immigrati? «La crescita delle imprese di stranieri in Italia è evidentemente un dato positivo – risponde Gagliardi – tanto sotto il profilo dell’integrazione sociale quanto sotto il profilo economico, visto che l’incremento di questa componente può tradursi anche in un miglioramento delle relazioni commerciali con i Paesi di provenienza degli imprenditori. Come è accaduto per l’emigrazione italiana nel mondo».