Libia, una bomba innescata a duecento miglia da qui

Libia, una bomba innescata a duecento miglia da qui

Siria, Iraq, Ucraina: nel recitare il rosario delle crisi internazionali si dimentica troppo spesso un Paese che ha tutte le caratteristiche per scatenare reazioni a catena: ha un territorio vasto e difficile da controllare, risorse energetiche importantissime e una forte presenza dell’Islam radicale. Uno Stato pressoché fallito, a duecento miglia dall’Italia, in cui si combatte un conflitto che difficilmente popola le nostre cronache: la Libia.

L’anno che si è appena chiuso ha visto lo scoppio definitivo della guerra civile, con la formazione di due fronti, ciascuno dotato di un governo, un parlamento, una coalizione di milizie. Il primo esecutivo, guidato da Abdallah al Thinni e considerato più legittimo dalla comunità internazionale, si è insediato a Tobruk, ai confini dell’Egitto, è sostenuto dai Paesi del Golfo e dall’Egitto, ha un rapporto fiduciario con la House of Representatives eletta a giugno ed è difeso militarmente dalle brigate dell’operazione Dignità, lanciata a maggio da Khalifa Haftar (un generale in pensione, la cui azione è stata prima sconfessata e poi accolta). Il secondo governo, legato al precedente Congresso, ha una forte impronta islamista, è diretto da Omar al Hassi, viene appoggiato da Qatar e Turchia e i suoi destini si intrecciano con le sorti militari delle milizie (prevalentemente filoislamiche) dell’Operazione Alba, che ha conquistato Tripoli la scorsa estate, dopo una lunga battaglia intorno all’aeroporto della capitale. In questo magma caotico, popolato dalle aspirazioni di berberi e tuareg, dai propositi federalisti in Cirenaica e dalle spinte autonomiste del Sud, il fondamentalismo islamico ha preso corpo corpo nell’Est e gruppi che si richiamano all’Isis hanno proclamato la nascita di un califfato a Derna.

Che fare? Ci sarà un nuovo intervento occidentale in Libia, dopo quello della Nato del 2011, che portò alla caduta di Gheddafi? Sinora gli unici raid esterni sono stati compiuti da Egitto ed Emirati Arabi. Qualche bombardamento aereo, peraltro non risolutivo. L’Occidente si è schierato con al Thinni (anche se a novembre l’elezione del Parlamento di Tobruk è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta libica) e, attraverso l’inviato Onu, Bernardino Leon, ha promosso una mediazione politica tra le due parti, che finora non ha dato grandi risultati. L’unico Paese che ha fatto intravedere la possibilità di un nuovo intervento militare è stata la Francia. Basta scorrere le parole pronunciate dal ministro della Difesa di Parigi, Jean-Yves Le Drian, nel corso di una visita alle truppe di stanza a N’Djamena, in Ciad, con cui ha trascorso la notte di Capodanno: «Quello che sta accadendo in Libia rappresenta, ne’ più, ne’ meno, la nascita di un santuario terroristico in un’area molto vicina all’Europa». La conseguenza contiene in se’ una volontà d’azione: «Sarebbe un errore se la comunità internazionale restasse passiva davanti a un tale focolaio terrorista nel cuore del Mediterraneo. Non possiamo accettarlo. La Francia farà la sua parte». Concetti ribaditi ieri in una base di grande importanza strategica, che i transalpini hanno creato a Madama, nel Nord del Niger, proprio a due passi dal confine con la Libia: «Vogliamo dimostrare, in questo inizio d’anno, la nostra determinazione contro la jihad, che vuole trasformare un’antica rotta commerciale nella strada della violenza e dei traffici illeciti». I confini meridionali della Libia, infatti, sono molto porosi e i fondamentalisti islamici hanno costruito una rete affaristica, un’alleanza con i clan, alimentata da rapimenti, commercio di droga e clandestini.

Ciad e Niger. Non è un caso. Nel Sahel la jihad si è rafforzata e nel 2013 la Francia è intervenuta, con l’operazione Serval, nel Nord del Mali, in funzione anti-islamista. Nell’agosto del 2014, poi, Parigi ha lanciato l’operazione Barkhane, per monitorare i gruppo islamo-mafiosi in una zona che comprende cinque Paesi – Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso – la cui estensione, per fare un parallelo, equivale all’area che va da Gibilterra a Mosca. E’ proprio questa sorta di G5 del Sahel a reclamare un intervento internazionale in Libia per ristabilire l’ordine. A metà dicembre, a Nouakchott, in Mauritania, i cinque Paesi avevano lanciato un appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per dispiegare in Libia, in accordo con l’Unione africana, «una forza capace di neutralizzare i gruppi armati, promuovere la riconciliazione nazionale e la formazione di istituzioni democratiche stabili». Ieri il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, ha detto che non si può trattare con le milizie e che «un intervento internazionale è necessario per riconciliare tutti i libici».  Negli ultimi mesi, poi, si sono intensificati i contatti tra i Paesi che confinano con la Libia – Egitto, Algeria, Tunisia, Sudan, Ciad, Niger – i più preoccupati dalla regionalizzazione del conflitto e dall’espansione dell’Islam radicale, e si è parlato a più riprese di un intervento diretto di Algeri e del Cairo. Ieri il premier tunisino Mehdi Jomaa ha dichiarato all’Associated Press che la più grande minaccia alla stabilità del suo Paese viene proprio da Tripoli.

Per la comunità internazionale il rischio concreto è che nasca un nuovo Jihadistan, analogo a quello che l’Isis ha costruito tra Siria ed Iraq, sulle rive del Mediterraneo, con una capacità intimidatoria ancora maggiore confronti dell’Europa. Dopo la proclamazione del califfato a Derna è cresciuto l’afflusso di terroristi inviati da al Baghdadi: se l’argine anti-islamista dovesse cedere, una vasta area dell’Africa, dotata di notevoli risorse energetiche, cadrebbe nelle mani della jihad.

La Francia, con la sue eredità storica e geopolitica in Africa, nonché il suo peso militare, è il maggior indiziato ad assumere la guida dell’intervento, anche perché gli Stati Uniti sembrano avere altre priorità. L’Italia, invece, malgrado il passato coloniale, e nonostante sia il Paese più esposto al Jihadistan, è attiva sul piano diplomatico, ma decisamente prudente riguardo all’ipotesi di una missione armata. Matteo Renzi e il ministro degli Esteri Gentiloni nelle ultime settimane hanno fatto più di un cenno alla questione libica, ma, come ha spiegato qualche settimana fa il ministro Roberta Pinotti, in un’intervista al Corriere della Sera, un invio delle truppe sarebbe possibile solo “in forza di una risoluzione dell’ONU” e, in ogni caso, dopo aver risolto la questione della legittimità ed individuato un interlocutore riconosciuto (quindi in seguito ad un’intesa tra le fazioni).

Tempi, questi, che contrastano con la velocità degli eventi sul campo. L’economia del paese è crollata. Secondo un report della Central Bank of Libya, uscito a dicembre, le entrate sono scese a 19,2 miliardi di dinari, rispetto ai 59,1 del 2013 (un dinaro vale circa settanta centesimi di euro). Le istituzioni rimaste sinora neutrali, come la stessa banca centrale e la compagnia petrolifera nazionale, stanno diventando oggetto di scontro. Prima il sistema era semplice: la Libia vendeva petrolio e gas, e con quei ricavi pagava i salari dei funzionari pubblici, in tutto il Paese. Poi al Thinni ha cercato di mettere in atto un sistema che escludesse dai pagamenti le banche che si trovassero al di fuori del suo controllo, in modo da togliere risorse ai rivali. Le milizie dell’operazione Alba hanno risposto attaccando i due principali porti dell’export petrolifero, Es Sider e Ras Lanuf. I danni sono enormi. I terminal sono chiusi da due settimane e solo ieri ad Es Sider è stato domato il rogo che si era innescato dopo che un razzo aveva distrutto i magazzini della struttura, mandando in fumo 1,8 milioni di barili di petrolio ed almeno due container. La produzione della Libia è crollata fino a 380.000 barili al giorno, mentre si combatte una guerra che non risparmia alcuna città. I soldati dell’Operazione Dignità hanno iniziato a bombardare Misurata, la città martire della rivoluzione, perno della missione Alba, mentre a Tobruk è stato preso di mira addirittura il parlamento. 

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