La terribile strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo rischia di far ritornare di attualità una serie di discorsi che si sentono con insistenza da molti anni, in particolare dopo gli attentati dell’11 settembre. Molti di quei discorsi stanno comparendo in queste ore nelle frasi dei politici italiani, in particolare di destra.
Ma ogni affermazione che comincia con le parole “L’Islam è…” dovrebbe essere vista con estremo sospetto. Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di frasi che contengono un grado inaccettabile di semplificazione: in particolare, sono l’espressione di un punto di vista che si illude di poter considerare una religione – qualsiasi religione – come un tutto unico e, soprattutto, come un’entità slegata dal mondo e dalla storia.
L’idea più pericolosa è quella che vorrebbe far passare l’Islam come una religione “intrinsecamente violenta”, e cioè che dai suoi precetti fondamentali discenda la necessità di perseguitare o uccidere chi le si oppone. Il ventitré per cento della popolazione del mondo — circa 1,6 miliardi di persone nel 2010 — è musulmana, quasi un essere umano su quattro. La religione islamica, tra le religioni maggiori, è quella che ha il maggior tasso di crescita nel mondo, per motivi principalmente demografici, e si stima che nei prossimi due decenni la popolazione musulmana crescerà a un ritmo doppio rispetto alla popolazione non musulmana.
Il pregiudizio di una “violenza intrinseca” è smentita dall’osservazione empirica che un quarto del mondo non è nel mezzo di una guerra di religione, e che la convivenza tra musulmani e non musulmani è pacifica nella stragrande maggioranza dei settantacinque paesi in cui i primi costituiscono più del 10 per cento della popolazione.
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Nelle numerose comparsate televisive delle ultime ore, il leghista Matteo Salvini ha riportato l’impressione che non fossero arrivate sufficienti dichiarazioni di condanna dell’attentato da parte “dei leader islamici”. Solo poche ore prima, le otto organizzazioni dei musulmani francesi avevano diffuso un comunicato di condanna dell’attentato in cui si dicevano «profondamente scioccati e addolorati per l’assassinio dei nostri concittadini giornalisti e poliziotti».
Ma anche al di fuori della Francia, i paesi musulmani hanno condannato ufficialmente l’attentato. L’Arabia Saudita lo ha definito «un codardo attacco terrorista che è stato rifiutato dalla vera religione islamica». Condanne sono arrivate anche dalle autorità dell’Iran, dall’Algeria, del Bahrein, della Giordania, del Marocco, così come dalla Lega Araba e dalla più importante istituzione teologica sunnita, l’antichissima università al-Azhar del Cairo.
Le impressioni di Salvini colgono però – senz’altro inconsapevolmente – un altro punto che è importante chiarire: che i vertici dell’Islam, semplicemente, non esistono. L’Islam sunnita, a cui appartengono più di tre quarti dei musulmani del mondo, è organizzato sulla base di autorità locali e limitate, e manca una sola istituzione che possa esprimerne la “voce ufficiale”, presente ad esempio nel cattolicesimo. Ci sono gli imam a capo delle comunità locali e, in alcuni stati musulmani, autorità investite di un maggior potere di rappresentanza, come il Gran Muftì in Arabia Saudita. Paradossalmente, chi vuole trasmettere una visione monolitica e immutabile del “vero” Islam sono i fondamentalisti.
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Questi distinguo non vogliono negare, al contrario, che all’interno della religione islamica non si siano prodotte correnti di pensiero che accettino e anzi promuovano l’uso della violenza (correnti che, sia detto per inciso, si sono sviluppate nel corso della storia in seno a qualsiasi religione, nessuna esclusa).
L’alienazione delle periferie o il fallimento dell’integrazione degli immigrati di seconda o terza generazione o la politica estera francese nei paesi arabi o perfino la mancanza di rispetto dei vignettisti di Charlie Hebdo non devono e non possono mascherare che, secondo gli elementi a nostra disposizione, la motivazione principale dei tre attentatori — uno dei quali era stato condannato nel 2008 per aver aiutato alcune persone a raggiungere l’Iraq per unirsi alla guerriglia — sia una motivazione religiosa.
Se verranno confermati i legami degli attentatori con Al-Qaida in Yemen, che sarebbero stati dichiarati da loro stessi a un testimone, stiamo parlando di una organizzazione del cosiddetto jihadismo salafita. È una corrente che non solo rifiuta la democrazia in virtù di una visione teocratica della politica ma considera anche “infedeli” — contro cui è legittimo muovere guerra — non solo i non musulmani, ma anche praticamente tutti gli attuali leader dei paesi musulmani. All’interno dell’Islam, le frange estremiste come quelle sono una assoluta minoranza, verso cui il resto della comunità ha condanne non meno dure delle nostre.
D’altra parte, la stessa “islamofobia” occidentale è stata storicamente e culturalmente determinata: per centinaia di anni Maometto è stato condannato in Occidente non in quanto portatore di una religione in sé violenta o contraria ai valori occidentali, alla Salvini, ma perché “impostore” e traditore della vera religione — il Cristianesimo.
Solo in tempi recenti, quando l’autorappresentazione occidentale si è concentrata sulla razionalità e i valori liberali, l’Islam semplificato è diventato un simbolo – uno dei simboli – della negazione di quegli stessi valori universali, dei diritti civili e della tolleranza. E a guardare bene le pieghe della Storia, questo non è un vero e proprio inedito: solo che in passato le posizioni furono rovesciate. Intorno al Settecento, in Francia, la religione musulmana veniva presa come esempio da alcuni filosofi libertini — nella polemica anticristiana – come una religione da preferirsi al Cristianesimo, perché più vicina alle esigenze dell’uomo rispetto ai precetti dei Vangeli.
Molte delle cose dette suoneranno come banalità, ma in queste ore sembra anche necessario ripeterle. Dobbiamo fare lo sforzo di evitare le semplificazioni su temi che si prestano a strumentalizzazioni politiche. La speranza è che i prossimi dibattiti, nel nostro paese, abbiano la lungimiranza di non perdere di vista i contesti e la complessità della storia.