Pochi giorni prima della strage nella redazione di Charlie Hebdo, il ricercatore Nick Danforth ha pubblicato sulla rivista statunitenseForeign Policy un articolo intitolato L’Islam non avrà la sua ‘Riforma’, sopra un’immagine che affiancava Martin Lutero e l’autoproclamato “califfo” dell’ISIS al-Baghdadi. Dopo quello che è successo negli ultimi giorni in Francia, il dibattito sulla necessità di una “riforma” all’interno dell’Islam è diventato ancora più attuale.
Da più di dieci anni, scrive Danforth, alcuni commentatori occidentali come Thomas Friedman parlano della necessità di un cambiamento all’interno della religione musulmana. Da parte sua, l’autore crede che non sia giusto cercare in quello che è avvenuto in Europa nel XVI secolo – una vicenda storica che si presta già da sola ad analisi e interpretazioni molto complesse – un percorso replicabile altrove: «Le differenti culture politiche nei paesi cristiani e musulmani di cui discutiamo oggi sono risultate da una storia intricata, un cammino tortuoso che offre poche lezioni facili o soddisfacenti». L’argomento di un “Martin Lutero islamico”, insomma, riflette una visione della storia troppo lineare (oltre ad essere difficilmente esportabile fuori dall’area protestante).
Il giorno degli attacchi di Parigi, la stessa immagine di Martin Lutero è stata usata sul blog Erasmus dell’Economist, che si occupa dei rapporti tra religione e politica, per illustrare un articolo sullo stesso tema toccato dalla rivista americana. L’articolo prova a considerare la questione dal punto di vista islamico: molti musulmani, argomenta l’autore, sottolineerebbero che nella loro religione non esiste una gerarchia ecclesiastica che fa da necessario tramite tra uomo e Dio, nella quale si potrebbero sviluppare il tipo di prevaricazioni condannate da Martin Lutero.
Direbbero anche che, come è piuttosto naturale aspettarsi da una religione con secoli di storia, movimenti di riforma o rinnovamento religioso sono una costante anche della storia islamica. Ma, aggiunge l’autore, «né nel Cristianesimo, né nell’Islam, né nel Giudaismo o nelle altre religioni maggiori la “riforma” può essere equiparata alla moderazione o all’ammorbidimento. Una religione minimalista o ridotta all’osso può essere più violenta e intollerante di una elaborata; chiedere a Oliver Cromwell o ai talebani pakistani».
In altre parole, bisogna chiedersi se la nostra concezione di un Islam «arretrato» e bisognoso di un cambiamento proveniente dall’interno non sia una proiezione indebita della storia dell’Occidente su un mondo di cui fatichiamo a percepire le sfumature (come ho già cercato di argomentare); e che forse, in definitiva, è legato alla nostra modernità più di quanto siamo disposti ad accettare. Abbiamo parlato di questi temi con Lorenzo Declich, già docente presso l’università di Napoli “L’Orientale” e autore del libro di prossima pubblicazione L’Islam nudo. Le spoglie di una civiltà nel mercato globale.
«I piani del discorso – dice Declich – sono molto diversi: quando si parla di riforma, una riforma c’è già stata a partire dal periodo coloniale e post-coloniale. Con degli esiti che nel tempo sono stati divergenti: da un punto di vista, il salafismo di oggi è uno dei figli di un riformismo di fine Ottocento e inizio Novecento che poi ha preso almeno due strade diverse.
Da una parte, quella di un rifiuto completo di alcune caratteristiche della nostra contemporaneità – molti salafiti, ad esempio, non votano e non credono nella democrazia, nonostante diverse formazioni abbiano deciso di partecipare alle elezioni (come si è visto di recente in Egitto). Dall’altra, invece, gli esiti sono stati una ricerca molto approfondita su temi molto ben meditati di confronto con la modernità e l’Occidente: e dunque laicità, dimensione individuale della spiritualità, democrazia».
Anche le formazioni del cosiddetto “Islam politico”, insomma, sono una creazione relativamente recente. «La storia – riprende Declich – parla della nascita di diverse formazioni che mettono l’Islam nella politica, che trovano cioè nell’entrata in politica e nell’affermazione dell’Islam come soluzione a tutti i problemi».
Ma questa posizione è solo una di quelle che si sono sviluppate all’interno degli ambienti culturali e sociali islamici. La stessa diversità si vede nel modo in cui questi si sono confrontati con la globalizzazione e la modernità, rappresentata dai modi di vivere e di concepire il mondo occidentali.
«Un aspetto che viene raramente messo in luce – dice Declich – è che all’interno del mondo islamico stesso c’è uno scontro in atto tra forme che scendono a patti con la globalizzazione e altre che mantengono una diffusione locale: tra queste ultime, ad esempio, si possono contare i gruppi sufi, radicati in quello che molti studiosi definiscono “islam popolare”».
L’accento su questa diversità di posizioni – tra quelle tradizionali e quelle invece che nascono come reazione a un mondo globalizzato – è stato posto di recente anche da altri studiosi. Olivier Roy, professore all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha detto a Le Monde che l’ISIS «non è l’espressione di una cultura tradizionale musulmana. I suoi membri si pongono come i soli detentori del sapere, i soli veri musulmani, e considerano tutti gli altri come degli eretici».
A proposito dei giovani occidentali che lasciano i loro paesi per combattere in Siria o in Iraq, Roy nota che, nei messaggi che lasciano prima di partire, alcuni parlano di una vita «vuota» e «senza scopo» vissuta nelle nostre società. La scelta jihadista, secondo Roy, va capita all’interno di un «movimento generazionale»: «la mia generazione sceglieva l’estrema sinistra, loro il jihad perché è quello che c’è sul mercato».
La versione “globalizzata” dell’Islam, riprende Declich, è tanto priva di contesto storico e culturale «da poter essere vissuta allo stesso modo tanto nelle banlieu parigine che tra i campi di grano dell’Ucraina. Per questo vediamo terroristi che vengono da un mondo che sembrerebbe totalmente globalizzato. Sono versioni “deculturate” dell’Islam di cui ancora si sa ben poco.»
Le correnti estremiste non vengono quindi da lontane sabbie mediorientali, da contesti arretrati che sono improvvisamente entrati in conflitto violento con noi. «Queste versioni dell’Islam, sebbene siano estremiste e violente, poggiano sulle stesse basi della “nostra” modernità e globalizzazione. Gli attentatori di Parigi sono persone che hanno alternato la loro identità in base alla loro vicenda di vita, tra integrazione e mancanza di integrazione.»
La stessa idiosincrasia si è vista di recente nelle strategie comunicative dell’ISIS: filmati di buon livello tecnico, che per le deliranti minacce contro l’Occidente usano timelapse, immagini di repertorio del Colosseo o della Torre di Pisa, spezzoni di film come The Hurt Locker o perfino di blockbuster come 300.
«La cosa fondamentale da capire è che non stiamo cercando di confrontare una modernità e un Medioevo, ma stiamo parlando di contraddizioni che sono interne al nostro mondo – che è molto più unito di quello che crediamo. Immagini come quella del jihadista che gioca alla Playstation sono all’ordine del giorno. Assistiamo alla nascita di un “purismo” che è completamente sposato con il mondo contemporaneo, che si nutre delle sue contraddizioni.»