Quella volta che Charlie non fu Charlie

Quella volta che Charlie non fu Charlie

Nel luglio del 2008, una delle grandi firme del settimanale satirico Charlie Hebdo, Maurice Sinet, fu licenziato in seguito ad accuse di antisemitismo che gli erano state rivolte. Fu un episodio che scosse il mondo dell’informazione francese, ma di cui oggi, dopo i fatti di Parigi, in pochi si ricordano. Negli ultimi quattro giorni, infatti, in seguito al blitz armato a Parigi, si è detto tutto e il contrario di tutto e Charlie Hebdo è stato mitizzato.

Leader di estrema destra, come Marine Le Pen, hanno invocato assurdi ritorni al passato e alla pena di morte, altri, come l’italiano Matteo Salvini, hanno diffuso alcune delle vignette su Maometto e sull’Islam, pubblicate da Charlie, nelle moschee di Milano. Capi di stato, capi di partito, media e giornalisti di ogni paese, opinionisti, persino moralisti alla Massimo Gramellini — uno che nel 2010, a Che tempo che fa, commentando una battuta molto cattiva sulla Shoah, affermava che No, non si può ridere di tutto — hanno speso parole accorate e grondanti retorica per difendere la libertà di espressione, per difendere la libertà di satira, per ribadire che si deve ridere di tutto e che non ci si può fare condizionare dalle minacce del terrorismo fondamentalista. Capi di stato, capi di partito, media e giornalisti di ogni paese, opinionisti e moralisti: il potere, insomma, i bersagli preferiti da gente come Charb e compagni, i bersagli preferiti di ogni satiro.

Contemporaneamente, migliaia di persone, in tutto il mondo, dalla Francia agli Stati Uniti, dall’Italia alla Palestina hanno aderito a una gigantesca mobilitazione autoindetta sul web e nelle piazze e unita sotto lo slogan Je suis Charlie, Io sono Charlie. Una ventata di conformismo ha soffiato su tutta Europa e su gran parte del resto del mondo, ha contagiato tutti, quasi nessuno escluso. Proprio in queste ore un’enorme manifestazione — ci si aspetta 1 milione di persone — percorrerà Parigi ricordando Charlie e le vittime di questi quattro terrificanti giorni. Una situazione paradossale, grottesca, insomma, una di quelle che sarebbe stato bellissimo veder commentata proprio da loro, dai vignettisti di Charlie, da Wolinski, da Cabu, da Charb, da Tignous, o se fossero ancora vivi, da Reiser o Cavanna, gente che sapeva scherzare persino sulla propria morte.

In questi quattro giorni è successo qualcosa che nessuno di quei disegnatori uccisi — ma nemmeno di tutti gli altri rimasti vivi in tutto il mondo — avrebbe mai avuto il coraggio di immaginare, ma su cui tutti, nessuno di loro escluso, avrebbe riso un sacco: Charlie Hebdo, un settimanale di satira che dell’iconoclastia faceva religione, trasformato in un’icona, un gruppo di artisti che per tutta la vita ha combattuto l’idolatria e il conformismo, trasformati in idoli da una folla di conformisti. Ci sarebbe materiale per una vita intera di satira e prese in giro.

Charlie Hebdo però non era puro. Charlie Hebdo non era un tempio incorrotto e incorruttibile della libertà di stampa. Anche Charlie Hebdo, qualche volta, non è stato Charlie Hebdo. Oggi è importante ribadirlo. È fondamentale ricordare l’umanità di quella rivista, un’umanità che si rivela nelle contraddizioni, nelle ombre, perché solo gli eroi non hanno ombre, solo le divinità sono senza contraddizioni. Non i satiri, non i vignettisti, non gli illustratori, uomini e donne che con le loro vignette taglienti e spesso nerissime ci hanno aiutato e ci continuano ad aiutare a ridere di tutto, della sua follia, dell’ignoranza, del conformismo, del fondamentalismo, di tutto ciò che c’è di idiota al mondo.

Il giorno in cui Charlie Hebdo non fu Charlie Hebdo fu un giorno di poco più di sei anni fa, nell’estate del 2008, più esattamente il 15 luglio del 2008, giorno in cui Philippe Val, direttore all’epoca di Charlie Hebdo, decise di licenziare una delle colonne portanti della rivista, Maurice Sinet, detto Siné.

La decisione fu presa da Val in seguito alle accuse di antisemitismo rivolte a Siné, attacchi scatenati dopo la pubblicazione, su Charlie Hebdo, in data 2 luglio 2008, di questo testo, firmato Siné:

Jean Sarkozy, degno figlio di suo padre e già consigliere generale de l’UMP, è uscito praticamente applaudito dal processo per omissione di soccorso in scooter. Il pubblico ministero ha persino richiesto il suo rilascio! Bisogna dire, però, che colui che lo querela è un arabo! E non è tutto: lui [il figlio di Sarkozy, ndt] ha appena dichiarato di volersi convertire all’ebraismo prima di sposare la sua fidanzata, un’ebrea, ereditiera dei fondatori di Darty. Ne farà di strada, nella vita, il piccolo!

Nei giorni che seguirono al licenziamento di Siné da Charlie, in molti si mobilitarono per difendere la sua libertà di espressione. Ma non valse a nulla. Siné non fu reintegrato, alcuni altri disegnatori se ne andarono da Charlie e lui, Siné, fondò un’altra rivista settimanale, Siné Hebdo, che divenne poi — per mancanza di soldi — un mensile, Siné Mensuel, che ancora esiste.

Anche Philippe Val rilasciò una dichiarazione subito dopo il fatto, una dichiarazione che è interessante leggere oggi, nel giorno della difesa della libertà di espressione e del diritto di tutti a ridere di tutto:

Sono raramente d’accordo con quello che scrive Siné, ma a Charlie c’è la libertà di esprimere opinioni differenti dalle mie. […] Ma questa libertà è limitata da uno statuto che vieta tutte le espressioni di razzismo e antisemitismo nella rivista.

Ovvero, forse non si può ridere di tutto. Nemmeno a Charlie.

Nelle ore dopo l’attentato, dopo aver saputo della morte di Charb e di tutti gli altri disegnatori, correttori di bozze, redattori di quella che per anni fu la sua rivista, dal letto d’ospedale dove è rinchiuso da anni, Siné ha scritto un messaggio:

Mi è impossibile mettere un’idea davanti all’altra da quando ho appreso la notizia, un paio d’ore fa. Ho l’impressione di aver ricevuto sulla testa un intero palazzo di sei piani. Alla mia età, mi era già successo di perdere dei buoni amici: Chaval, Tetsu, André François, Ronald Searle… e molti altri!

Ma quattro tutti insieme Tignous, Wolinski, Charb, Cabu… assassinati da dei pazzi, dei malati.

Quando è troppo è troppo, è insopportabile, è abominevole… È disumano!

Non ci sono parole per descrivere il mio struggimento, la mia pena.

Scrivo queste poche parole dalla mia stanza di ospedale dove provano a farmi uscire da una grave anemia. Ma non sarà questo che metterà a posto le cose!

P.S.: tutta la redazione di Siné Mensuel è distrutta quanto me.

Nelle ore seguenti, dal sito e dal profilo di Siné Mensuel, la redazione ha espresso tutto il suo dolore per la tragedia, annunciando non solo uno dei più sentiti Nous sommes Charlie, noi siamo Charlie, ma offrendo se stessi, le proprie vignette e il proprio materiale, per il prossimo numero di Charlie.

Vorrei finire questo articolo con una nota personale, e mi scuso di questo con chi legge, non lo faccio per volontà di protagonismo, ma per chiarire la mia posizione sulla vicenda.

Non sono soltanto un giornalista, faccio parte di uno straordinario collettivo di persone che si chiama L’antitempo. È un po’ la mia famiglia. Con loro, che sono soprattutto disegnatori, a differenza mia, ho portato avanti per quasi due anni una rivista di satira bimestrale, L’antitempo, appunto. La notizia del massacro della redazione di Charlie mi ha colpito come un treno in corsa, mi ha lasciato senza parole, e quasi senza fiato.

Pur avendo delle riserve su alcune decisioni editoriali di Charlie: dal licenziamento di Siné, fino alla pubblicazione delle vignette danesi su Maometto. Non ero d’accordo, ma ho sempre difeso il loro diritto a farlo perché sono convinto — l’ho scritto più volte e non smetterò di farlo — che si può ridere di tutto.

Si può ridere di tutto: una frase il cui baricentro, per me, è quel verbo potere, un verbo che paradossalmente è definito dalla grammatica come Verbo servile, ma che è il verbo che sintetizza la nostra libertà, la libertà di scegliere cosa fare della propria vita, del proprio lavoro, la libertà di autodeterminarsi.

Con queste cose in testa ho assistito per quattro giorni alla tempesta mediatica di commenti, opinioni e prese di posizioni, vivendo uno stato d’animo che non avevo mai vissuto: ero stordito, letteralmente, come se mi fosse esplosa una bomba a mano a un metro di distanza e mi fossi rialzato con la vista offuscata, sentendo un gran fragore rimbombarmi nelle orecchie. Non ho voluto — non sono stato in grado — di scrivere nulla sulla tragedia perché mi sembrava che ogni parola fosse inutile. Ho scritto soltanto una volta, su Facebook, quello che mi passava per la testa:

Mi piacerebbe essere anch’io Charlie, perché almeno saprei come riderci sopra. Ma non ci riesco. Ancora non ci riesco. #‎IoNonSonoCharlie.

Nelle ultime ore ho sentito usare da molti che considero fascisti, ignoranti e reazionari — tra cui Marine Le Pen e Matteo Salvini — la stessa frase: Io non sono Charlie. Ma il mio non essere Charlie è completamente opposto al loro non essere Charlie. Io non sono Charlie perché non ho saputo oppormi alle lacrime che mi uscivano dagli occhi, perché non sono stato all’altezza di quello che ho sempre voluto essere: avrei voluto ridere di questa tragedia, perché è la risposta migliore da dare a chi odia. Sarà una risata che vi seppellirà, scrivevano gli anarchici all’inizio del Novecento. E mi sarebbe piaciuto riuscire a metterla in pratica.

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