Sembra fatta apposta per rilanciare l’illogicità del nuovo Jobs Act che vale solo per i lavoratori privati e non per il pubblico, l’assenza dell’83,5% dei vigili urbani previsti in servizio a Roma la notte di san Silvestro con 600mila persone per le strade della Capitale, e quella dei 200 netturbini che dovevano prestare servizio a Napoli a Capodanno. Le amministrazioni locali hanno reagito diversamente. Lancia in resta contro l’assenteismo il sindaco di Roma e innanzitutto il comandante della Polizia Municipale, Raffaele Clemente. Mentre a Napoli il vicesindaco Sodano ha preferito parlare di “dato fisiologico”, stante che l’età media dei dipendenti della municipalizzata è più vicino ai 60 che ai 50 anni.
La differenza istituzionale, rispetto a molte altre volte, è che subito il premier Renzi ha messo nel mirino gli assenteisti
La novità vera è che sia a Roma sia a Napoli la Cgil fa fuoco e fiamme contro gli assenteisti. E questo dice molto, perché nelle proteste estreme delle mille sfaccettature del mondo pubblico il microsindacalismo corporativo ha molto più peso che nei grandi numeri del lavoro privato. Ma la differenza istituzionale, rispetto a molte altre volte, è che subito il premier Renzi ha messo nel mirino gli assenteisti, promettendo che con la delega Madia sulla riforma della Pa all’esame del parlamento saranno assunte tutte le misure necessarie perché vicende simili non possano ripetersi.
Detto questo, alcune distinzioni. La municipalizzata dei rifiuti di Napoli, insieme all’Atac e all’Ama di Roma e alle consorelle di Palermo, sono nelle serie storiche purtroppo notoriamente in testa per assenze medie dal lavoro, con un rapporto giunto fino a 3-4 volte la media nazionale e fino al 25% medio giornaliero. Diverso è il caso della protesta esplosa a Roma. Che è di gravità purtroppo diversa.
A Roma non si è trattato di un assenteismo elevato frutto di scelte personali e pessime abitudini rese possibili da medici conniventi. Nella Capitale a Capodanno si è verificata un’astensione di massa coordinata sindacalmente, con la Cgil non d’accordo ma con le altre due confederazioni maggiori in linea con altre tre sigle sindacali, determinate a un colpo di mano contro la giunta e soprattutto contro il comandante Clemente: un superpoliziotto che dopo un anno è ancora vissuto come estraneo al corpo. Un corpo che considera un affronto le misure da Clemente proposte, di rotazione di tutto il personale nella città per estirpare tolleranze e connivenze con illegalità di vario tipo, e di riforma totale delle diverse ripartizioni metropolitane.
La resistenza dei vigili urbani alla rotazione induce ad amare considerazioni sul retroterra da cui nasce si alimenta Mafia Capitale
La resistenza dei vigili urbani alla rotazione induce purtroppo ad amare considerazioni, sul retroterra da cui nasce si alimenta Mafia Capitale. Aggiungeteci un contratto fermo da cinque anni, la richiesta di raddoppiare l’organico da 6mila a 11mila componenti come se la Capitale non fosse stata salvata per due volte dai contribuenti nazionali abbuonandole in gestione separata 15 miliardi di debiti: ecco come nasce la diserzione di massa dei vigili capitolini dalle strade romane. Ed ecco spiegati i commenti beffardi di alcune sigle sindacali dietro la protesta, che come Ospol hanno giudicato l’83,5% come “un dato normale, per il freddo e il periodo”.
I sindacati ispiratori della protesta a Roma, della massiccia ondata di certificati medici e donazioni sanguigne e rifiuti della prestazione in servizio sostitutivo per chi era previsto in disponibilità, forse non se ne rendono proprio conto: con la loro scelta hanno indotto centinaia di vigili a non capire che così comportandosi confermavano solo che a Roma un problema enorme di legalità esiste dal basso, e non solo per le vicende toccate dalle indagini su “Mafia Capitale”. C’è da sperare solo che i vigili urbani romani riflettano, ora che gli ispiratori dell’assenteismo li invitano urlando allo sciopero contro la presunta “intimidazione antisindacale”. E che la politica non dica fesserie, visto che a Roma la destra pare intenzionata a cavalcare gli assenteisti dando loro ragione.
I numeri
Già ho scritto all’indomani della mancata estensione del Jobs Act al lavoro pubblico, che l’illogicità di questa scelta – pur affermata dalla Corte Costituzionale in molte sentenze – sarebbe inevitabilmente esplosa. E non a caso la settimana scorsa facemmo subito l’esempio dell’assenteismo pubblico, sottolineando il fatto che l’impegno assunto con la riforma Brunetta del 2008 a un monitoraggio sistematico al Parlamento è stato disatteso dai governi successivi. Nella persistente babele dei diversi istituti che raccolgono i dati delle assenze a diverso titolo delle forze di lavoro – la rilevazione trimestrale Istat rileva solo le assenze “mediche”, (più elevate negli ultimi dati del 21% rispetto a quelle private a parità di unità impiegate, ma pensate che nel 2006 il divario era del 34%) poi si aggiungono Inps, Inpdap, coi relativi servizi ispettivi e via continuando – una sintesi complessiva delle assenze è desumibile dal Conto Annuale sul Pubblico Impiego della Ragioneria Generale dello Stato.
Le assenze mediche nel pubblico sono il 21% in più rispetto a quelle private
Nel documento – che come vedete non è di agevolissima consultazione – i dati non sono comparati con il privato, e comprendono tutte le diverse forme di assenza dal lavoro, quelle mediche certificate e retribuite, quelle per ferie, maternità, assistenza a congiunti disabili, permessi sindacali e scioperi. L’ultima versione è relativa al 2013, e il difetto fondamentale è di non tenere conto dell’universo delle 10mila società pubbliche locali. Ma resterete sicuramente stupiti nell’apprendere che i giorni medi annuali di assenza nella Pa italiana nel 2013 – ripetiamo: tutto compreso a cominciare dalle ferie – sono stati 42 per gli uomini e 51 per le donne: ma con punte di oltre 60 per gli uomini e 65 per le donne nei corpi di polizia, 57 giorni alla presidenza del Consiglio, oltre 50 nel servizio sanitario nazionale, 46 in Regioni e Comuni, 40 nei Vigili del Fuoco, e meno di 20 giorni nelle Università. Ci sarebbe un volume da scrivere, per le variazioni geografiche e di sottosettore pubblico. Ma una cosa è sicura: i numeri dicono che c’è ancora moto da fare per accrescere la produttività e combattere assenze di comodo.
Le sanzioni
È sbagliato però credere che si debba procedere a chissà quale giro di vite normativo nel settore pubblico. La politica lo annuncia e ripeter per farsi bella. In realtà le norme ci sono tutte o quasi: bisogna solo decidersi a usarle, una volta per tutte. La riforma Brunetta, introdotta dal D.Lgs. 150/09, ha modificato profondamente il sistema disciplinare nel pubblico impiego, intervenendo in particolare sulla struttura del procedimento e sugli stessi poteri degli organi di controllo. La legge definisce di minore gravità le infrazioni per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale minori della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più 10 giorni. E quelle di maggiore gravità, per le quali le sanzioni vanno dalla sospensione superiore a dieci giorni, al licenziamento con preavviso e anche senza preavviso.
Affermare che nel pubblico impiego non si può licenziare i fannulloni è una sciocchezza assoluta
Affermare che nel pubblico impiego non si può licenziare i fannulloni è una sciocchezza assoluta, esattamente come nell’ordinamento è anche prevista la possibilità della messa in mobilità per ridurre le piante organiche che risultino eccedenti dal punto di vista funzionale o economico.
Tanto è vero che la legge prevede esplicitamente all’articolo 55 il licenziamento disciplinare “per falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia; per assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione; per ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio….” e via continuando, per non annoiarvi.
Nuovi rimedi
Non troverete nelle banche dati del sistema giudiziario italiano traccia di impugnative e cause relative a licenziamenti per dipendenti pubblici con assenze ingiustificate di quattro giorni in un biennio. I licenziamenti avvengono solo innanzi a condotte enormemente più gravi, nell’ordine di settimane e mesi (non scherzo, a giugno è stato il caso di un dipendente postale) di assenze ingiustificate e continuative. Se poi il governo vorrà aggiungere nuove prescrizioni, bene. Ma il punto è che occorrerebbero solo due misure che nella riforma disciplinare non ci sono, ma senza delle quali restano sulla carta: sanzioni al dirigente pubblico che non contesta sistematicamente ai suoi inferiori le mancanze disciplinari previste dalla legge; e sanzioni al sindaco, presidente di Regione e ministro che non rediga un rapporto annuale delle misure assunte per il pieno rispetto delle leggi vigenti in materia di correttezza, legalità e produttività delle prestazioni di servizio offerte da ciascuna amministrazione. È questa la svolta che manca: quella della volontà, non quella delle norme.