“Maestro” è parola usurata da un utilizzo spesso sbagliato. Ma resta l’unica possibile per definire un regista della statura di Francesco Rosi, che oggi ci ha lasciato a 92 anni, a Roma. Maestro perché ha indicato a generazioni di autori, a tutte le latitudini, la potenza di un linguaggio antiretorico ed energico quando si racconta la realtà laddove essa è più oscura e pericolosa: la criminalità organizzata, le trame del potere, la violenza al servizio dei grandi interessi. Maestro perché ha costruito uno stile, riconoscibilissimo e audace, arricchendo la forza del documento e della denuncia con la bellezza estetica, la cura formale, e perfino accenti lirici e fiabeschi che non gli si riconoscerebbero. Maestro perché è stato uno dei più grandi narratori del Mezzogiorno, raccontato senza riserve né sconti, con uno spirito che in tutto appartiene a quella meglio gioventù napoletana, nata nel giro di pochi anni, transitata per gli stessi luoghi e accomunata dalle stesse scelte (il liceo Umberto, le associazioni studentesche dello spettacolo, l’approdo a Roma ma in fondo senza mai essere davvero feriti a morte da Napoli), e che risponde ai nomi, oltre che di Rosi, di Giorgio Napolitano, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli…
L’Italia con Rosi perde davvero una figura monumentale della sua cultura. Infiniti i pezzi della sua eredità. La grandezza di Rosi è in “Salvatore Giuliano”, una delle più grandi ricostruzioni criminali della storia del cinema, che si basa su una scelta assolutamente geniale: non mostrare mai, mai il “re di Montelepre” in volto, in primo piano, ma sempre in campo lungo, per non farne un eroe (il racconto del male si presta sempre all’equivoco tragico della simpatia), una figurina da ammirare, ma un elemento pur centrale dentro un contesto che è molto più vasto, ed enigmatico. Leonardo Sciascia giustamente lo definì il più grande film sulla Sicilia mai fatto. E col grande scrittore siciliano il regista si misurò per “Cadaveri eccellenti”, tratto da “Il contesto”, una delle grandi parabole sul potere, anzi sui poteri, per lo più occulti e inconfessabili, che si muovono all’incrocio di mafia, magistratura e politica: il film si chiude con l’assassinio del segretario del partito comunista, vittima di una spietata macchinazione.
La strage di Portella della Ginestra, 1° maggio 1947, dal film Salvatore Giuliano
Rosi manifesta nella sua opera la sua posizione progressista, da figlio della borghesia laica e liberale (ha anche uno zio massone, che in gioventù gli chiede di unirsi alla fratellanza, ma lui rifiuta: lo racconta in “Io lo chiamo cinematografo”, libro-intervista con Giuseppe Tornatore, che da intelligente e appassionato intervistatore offre un libro di cinema assolutamente necessario, il suo miglior contributo alla settima arte, insieme al suo esordio “rosiano” del “Camorrista” e “Nuovo Cinema Paradiso”). Con grande intuito politico e coraggio di esporsi, intuisce che la politica va raccontata come un grande racconto drammatico, perché in essa si muovono le ansie, le speranze e purtroppo le dannazioni di una intera società: nasce così “Le mani sulla città” che rende shakespeariani il consiglio comunale, le riunioni della commissione urbanistica, le guerre di correnti democristiane, il sacco edilizio della Napoli monarchico-laurina e poi dc, precisamente caratterizzata senza cartolina, e anzi avventurosamente moderna, con i lazzari e i senzacasa ma anche i grattacieli, i club dove si ammazza la notte giocando a poker in smoking e bevendo champagne, con le fuoriserie, le amanti straniere, le ville posillipo-hollywoodiane dove intrigare a bordo piscina, e con uno dei più grandi personaggi del cinema italiano, l’assessore palazzinaro Edoardo Nottola, nelle cui vesti giganteggia Rod Steiger.
“Le mani sulla città”
“Il caso Mattei” è un altro dei suoi film emblematici, quintessenza del film-inchiesta, film che solo Rosi è in grado di girare a quel livello, con scelte di linguaggio tutt’oggi insuperate, mischiando i piani della ricostruzione, della documentazione, della rappresentazione di sé, alle prese con uno dei grandi misteri italiani, ossia la morte di Enrico Mattei, capo dell’Eni e tra i più influenti personaggi del dopoguerra italiano, lo scacchiere della politica petrolifera, la psicologia di un uomo di potere, la raffigurazione del carisma: in questo aiutata dalla performance di Gian Maria Volonté, suo attore feticcio.
“Il caso Mattei” – L’intervista
E ancora i grandi criminali alla “Lucky Luciano” (ancora un Volonté virtuosistico) e i piccoli criminali dei “Magliari” (criminali da amara commedia, trent’anni prima di “Quei bravi ragazzi” di Scorsese, uno dei suoi fan più accesi, come quasi tutti i registi americani di quella generazione: il grande Cimino rifece, e male, “Salvatore Giuliano”, per dire) e ancora quelli della “Sfida” di una camorra pre-cutoliana e ancor di più pre-Gomorra, anche se il pianeta narrativo Gomorra – romanzo cinema tv – è senza dubbio debitore di Rosi.
“Cadaveri Eccellenti” – Agrigento: “sono loro che l’hanno voluta così”
C’è spazio però nella carriera del maestro napoletano anche per opere che rafforzano il suo carattere di narratore muscolare quanto raffinato: e sono la trasposizione dell’opera di Bizet “Carmen”, uno dei vertici del cinema d’opera, e “C’era una volta”, fiaba in costume ambientata in un Sud magico e spagnolesco, derivata nell’ispirazione da quel “Lu cunto de li cunti” di Giambattista Basile che è alla base del prossimo film di Matteo Garrone (che sia Garrone il vero erede di Rosi?), con una Sophia Loren stupendamente popolaresca.
“Carmen” – Habanera
Dopo gli ultimi film, prove generose ma senza i picchi dei capolavori precedenti, Rosi da grande uomo di spettacolo reindirizza la sua vena creativa verso il teatro, la sua prima passione, condivisa nella gioventù napoletana soprattutto con Napolitano, che si misurò con alcune regie prima che la politica prendesse definitivamente il sopravvento. Ed ecco allora De Filippo, di cui Rosi negli anni Duemila allestisce “Napoli milionaria”, “Le voci di dentro” e “Filumena Marturano”, tutte interpretate da Luca De Filippo (compagno di vita di sua figlia Carolina).
L’età avanzata non scalfisce la schiettezza e la lucidità di uno sguardo, che dalla sua casa-studio sopra Piazza di Spagna lui tiene costante aperto sul mondo, filtrato dalla canonica lettura della quotidiana mazzetta di giornali, come un intellettuale della vecchia scuola.
“Cristo si è fermato a Eboli”
Rosi, il grande Rosi, ci lascia un patrimonio che è allo stesso tempo di bellezza e di democrazia: perché l’impegno da solo è testimonianza, l’impegno in una grande prova d’arte lunga una vita è un’immensa eredità pubblica. In una carriera in cui non sono mancati riconoscimenti e onori (le vittorie a Cannes, Venezia, Berlino, Mosca, la nomination agli Oscar, i Globi, i David, i Nastri d’argento, i tanti premi alla carriera, e per ultima la cittadinanza onoraria di Matera, scelta quanto mai azzeccata visto che la Basilicata – come Napoli e la Sicilia – è stato uno dei set principali della sua cinema, anche per un riconoscimento di magistero a Carlo Levi, di cui ha trasposto il “Cristo si è fermato a Eboli”, ancora con Volonté), Rosi ha scritto alcune delle pagine più belle del cinema italiano. E non è retorica dirlo oggi che non c’è più. Qualunque Paese sarebbe onorato di aver avuto un artista così: così perbene, così limpido, così grande.