Inizia oggi una nuova collaborazione con il magazine online Finzioni, un progetto di lettura creativa che negli ultimi anni è diventato uno dei punti di riferimento online del mondo letterario italiano. Sarà una specie di rubrica, sarà settimanale e si chiamerà Un mercoledì da Finzioni. Buona lettura.
Si è svolto tra il 21 e il 31 gennaio a Park City, sobborgo di Salt Lake City, l’edizione 2015 del Sundance Film Festival. Storica kermesse che non ha certo bisogno di presentazioni e che nei decenni si è costruita una solida reputazione come una delle rassegne di cinema indipendente più importanti al mondo, al punto che molte delle novità che noi cinefili aspettiamo con ansia ogni anno arrivano proprio da lì.
È in questa cornice che è stato presentato un film che fa parlare di sé da più di un anno: The end of the tour , ovvero la prima volta di David Foster Wallace al cinema. Il film infatti, diretto da James Ponsoldt, è un adattamento cinematografico di Come diventare se stessi (titolo originale Although Of Course You End Up Becoming Yourself: A Road Trip With David Foster Wallace ), il risultato dei cinque giorni trascorsi insieme a DFW dal giornalista David Lipsky, inviato nel 1996 dalla rivista Rolling Stone a scrivere un lungo articolo sull’autore che, grazie al successo clamoroso di Infinite Jest, era appena diventato the greatest-novelist-of-his-generation. Quell’articolo non fu mai pubblicato, ma in seguito alla morte di Wallace, nel 2008, Lipsky ha ripreso in mano la conversazione e il risultato è uno dei ritratti più belli e più veri di Wallace.
Un biopic dunque, anche se dato il breve arco temporale coperto non si potrebbe definire tale, con Jesse Einsenberg (già Mark Zuckerberg) nei panni di Lipsky e Jason Segel in quelli, assai scomodi, di DFW.
Un film, come dicevamo, nato tra le polemiche. A opporsi alla realizzazione del biopic era stata da subito la famiglia di Wallace e il suo editore Little, Brown and Company che avevano diramato un comunicato ufficiale a aprile 2014 affermando che l’autore non avrebbe mai voluto che le registrazioni di quel road trip durato cinque giorni con Lipsky diventassero un film e che per di più non erano stati informati della sua realizzazione se non a cose fatte.
A far discutere i fan sin dall’inizio invece era il fatto che a interpretare il loro beniamino fosse stato chiamato Jason Segel – qui un assaggio delle reazioni – attore noto al pubblico italiano per essere uno dei protagonisti della sitcom How I met your mother, ma che negli USA è conosciuto anche e soprattutto per la sua collaborazione con il regista e produttore Judd Apatow, uno che si è costruito una fama a suon di commedie il cui ingrediente principale è un certo umorismo goliardico e volgare. Segel, insieme a James Franco e Seth Rogen, aveva esordito nel gruppo dei Freaks in Freaks and Geeks, la serie prodotta da Apatow e ambientata negli anni ’80, trasmessa per un solo anno da NBC dal 1999 al 2000, diventata una sorta di cult del genere, che raccontava, in estrema sintesi, la quotidianità di due gruppi di liceali – i fighi e i secchioni del titolo – in un sobborgo di Detroit. Da allora Segel ha preso parte a altre commedie prodotte da Apatow, da Molto incinta alla più recente This is 40, il cui livello non era esattamente da cinema d’essai. Da icona bromance a scrittore brillante e tormentato, la trasformazione non pareva possibile. Reazioni paragonabili si erano viste di recente solo per Ben Affleck nel ruolo di Batman e Ashton Kutcher nei panni di Steve Jobs.
Piccola parentesi personale: io Segel l’ho scoperto un paio di anni fa, su un volo per gli Stati Uniti, guardando un piccolo film dei fratelli Duplass che negli USA è stato un discreto flop al botteghino, Jeff, who lives at home. È la storia di un trentenne disoccupato e ossessionato dal film Signs, che abita ancora nel seminterrato di casa di sua madre – una precisazione: negli Stati Uniti nessuno vive con i genitori dopo il liceo – che vive una giornata piena di disavventure innescate dalla telefonata di una persona che ha sbagliato numero.
Insomma, Jason Segel cinematograficamente è tante cose: per qualcuno di voi è solo Marshall Eriksen, per altri è quello delnudo frontale di Forgetting Sarah Marshall (Non mi scaricare in italiano, scritto da Segel e prodotto dal solito Apatow), per me invece è Jeff con tutte le sue paranoie, per cui, da fan di Wallace, sono stata contenta della scelta. Una bella sfida per Segel quella di portare sullo schermo l’autore più amato e intoccabile dell’ultimo decennio. Ma sembra che questa sfida l’abbia vinta.
A dar retta alle recensioni che sono uscite in questi giorni sui principali magazine americani, infatti, pare che a mettere d’accordo tutti sia stato proprio lui, Jason Segel, capelli lunghi e bandana wallaciana d’ordinanza. Secondo l’ Huffington Post, l’interpretazione di Segel va al di là della semplice imitazione e riesce nel rendere ogni sfaccettatura della personalità di Wallace. Segel sarebbe bravo a interpretare lo scrittore senza conferirgli quell’etichetta di genio che non smette di accompagnare lo scrittore dalla sua morte, falsificando quella che doveva essere la vera natura di un uomo di eccezionale talento ma la cui umanità era troppo complessa per essere ricondotta ad un’astrazione a fini di idealizzazione. Quindi non una banalizzazione della sua figura, rischio insito nel progetto, grazie anche al fatto che lo script dello sceneggiatore Donald Margulies è molto fedele all’originale, in quanto si basa sulla trascrizione delle conversazioni tra i due (argomentazione questa che era stato il cavallo di battaglia della “difesa” del film).
Un’interpretazione così convincente, quella di Segel, che sia l’Huffington che The Vulture arrivano a candidarlo (precocemente) all’Oscar come miglior attore protagonista. Una performance career-changing, ovvero che potrebbe essere quella della svolta per l’attore americano classe 1980; e se ci sembra presto per gridare all’Oscar, è vero che Hollywood dimentica il passato, così come è successo, per citarne uno, a un certo Matthew McConaughey, passato da essere il biondo palestrato di Come farsi lasciare in dieci giorni al miglior attore protagonista per la sua performance emaciata in Dallas Buyers Club. L’elenco delle critiche entusiaste potrebbe continuare, su Rolling Stone, The Verge, The Guardian. Certo è che le recensioni non fanno che incuriosire ancora di più i fan, che però dovranno pazientare ancora un po’ per vedere il film nelle sale. A24, giovane casa di distribuzione newyorchese che ha tra i suoi titoli recenti Spring Breakers, Locke e Under the skin, ha annunciato di averne acquisito i diritti, ma non si sa ancora la data di uscita del film nelle sale americane.