C’è chi si è sorpreso di vederlo mangiare al ristorante del Senato, pochi giorni dopo le sue dimissioni da presidente della Repubblica. Chi non si aspettava di trovarlo così spesso a Palazzo Giustiniani, dove al quarto piano gli è stato assegnato un grande studio con terrazzo. Ma evidentemente Giorgio Napolitano non ha ancora perso la passione per la politica. Dopo nove anni al Quirinale, il presidente emerito della Repubblica ha riscoperto l’impegno parlamentare. Iscritto al gruppo per le Autonomie, appena tornato in Parlamento l’ex capo dello Stato ha chiesto di far parte della commissione Affari Esteri (di questioni internazionali è sempre stato un esperto, fin dai tempi del Pci). E così da un mese a questa parte il senatore a vita Napolitano è sempre sul pezzo. Sollecita audizioni, prende la parola in Aula e commissione con interventi tutt’altro che scontati. Non disdegna neppure qualche ironico commento alle vicende politiche nazionali. «Il patto del Nazareno? – ha scherzato con i giornalisti qualche giorno fa – Si è passati da un accordo non su tutto a un disaccordo su tutto». Senza dimenticare il ruolo svolto durante l’elezione del suo successore al Colle. Alla faccia di chi si aspettava un ex presidente in pensione.
La prima immagine risale proprio a qualche settimana fa. È il 31 gennaio, il Parlamento in seduta comune sta per nominare Sergio Mattarella al Quirinale. Una fotografia pubblicata in rete dal portavoce di Matteo Renzi, ritrae il premier assieme a Giorgio Napolitano. I due sono nella sala del governo a Montecitorio. Assistono fianco a fianco alla conta delle schede, trasmessa in diretta televisiva. Non è un mistero che in quella partita il presidente emerito ha giocato un ruolo preciso, forse decisivo. I bene informati confermano i contatti avvenuti con il leader del Nuovo Centrodestra Angelino Alfano nelle ore prima del quarto scrutinio. Una moral suasion di Napolitano, per convincere l’esponente di governo a convergere sul nome di Mattarella avanzato poche ore prima da Matteo Renzi.
Retroscena di Palazzo, chissà quanto fedeli alla verità. Come le indiscrezioni che hanno accompagnato l’esordio parlamentare del presidente emerito. Venerdì 13 febbraio il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni viene invitato dalle commissioni Esteri di Camera e Senato per riferire sul conflitto in Ucraina. Tra i parlamentari presenti, qualcuno rivela che a sollecitare l’incontro sia stato proprio Napolitano, convinto della necessità di coinvolgere le Camere nella complicata crisi internazionale. Il presidente della III commissione Pierferdinando Casini effettivamente incontra l’ex capo dello Stato poco prima di convocare la seduta. «Un forma di rispetto istituzionale» spiegano al Senato. Probabilmente è così. Eppure durante l’audizione è proprio Casini scherzando a rivolgersi a Napolitano. «Mi sa che da ora in poi sarò sotto osservazione, vero?».
Di quell’appuntamento resta agli atti l’intervento del presidente emerito. Un discorso incisivo, tutt’altro che scontato. Napolitano bacchetta le istituzioni europee. Alla base del conflitto nel Donbass non ci sarebbe solo l’annessione russa della Crimea, ma l’accordo di associazione Ue-Ucraina. Un’intesa firmata frettolosamente, sotto la «forte pressione esercitata da alcuni paesi europei», che ha finito per acuire le preoccupazioni di Mosca. L’ex presidente prende la parola, seduto vicino alla grillina Marta Grande. Ad ascoltarlo sono venuti anche parlamentari che della commissione non hanno mai fatto parte. C’è la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, che accoglie Napolitano all’ingresso del Palazzo e lo scorta fino all’aula dove si tiene l’audizione. Ma anche i capigruppo di Pd e Area Popolare, Luigi Zanda e Renato Schifani.
Chi si aspettava un presidente annoiato dalla politica deve ricredersi. Napolitano partecipa, interviene, dice la sua. Ai lunghi silenzi di Mattarella si contrappongono le frequenti uscite del suo predecessore. Ovviamente con i limiti legati all’età: la prossima estate l’ex capo dello Stato compirà 90 anni. Due giorni fa, mentre a Palazzo Borromeo era in corso la celebrazione dell’anniversario dei Patti Lateranensi, Napolitano ha chiamato l’ambasciatore italiano per inviare un saluto ai presenti. «Una piacevole sorpresa» come ha ammesso poco dopo il portavoce vaticano Padre Federico Lombardi. Del resto il giorno del suo ingresso al Senato Napolitano l’aveva annunciato. «Sono onorato di tornare a far parte di questa Assemblea e di questa istituzione – le sue parole – Lavorerò insieme con tutti voi, perché anche le prospettive future siano un’esperienza creativa per tutti noi». Poco prima di entrare in Aula e ricevere il caloroso applauso dei presenti, si era persino lasciato andare a una battuta con i cronisti. La rottura del patto del Nazareno e il raffreddamento dei rapporti tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi? «È un fatto che si commenta da sé. Mi pare che si sia passati da un accordo non su tutto a un disaccordo su tutto».
L’ultima presa di posizione, forte, risale a ieri. Un intervento in Aula al termine dell’informativa del ministro GentMentriloni sulla vicenda libica. Alla faccia del basso profilo, prendendo la parola al Senato Napolitano ha difeso l’intervento militare del 2011. Invitando il governo ad affrontare con responsabilità anche questa nuova crisi nel paese nordafricano. «Noi non possiamo tirarci indietro, come non ci tirammo indietro nel 2011». Ironico, il presidente emerito ha risposto anche a chi, nei giorni precedenti, lo aveva accusato di aver giocato un ruolo di primo piano nella scelta di bombardare la Libia. «Sono stato gentilmente citato per il ruolo avuto nei giorni in cui venne deciso che l’Italia partecipasse a un’iniziativa multilaterale di carattere militare in Libia. Bene, vale la pena di ricordare che fu una comune assunzione di responsabilità, incentrata su chi nel nostro sistema costituzionale aveva ed ha la responsabilità delle decisioni in materia di politica estera e di difesa, cioè il Governo della Repubblica». Se c’è stato un errore, in ogni caso, è avvenuto dopo. Ed «è consistito – così l’analisi di Napolitano – in una sorta di disimpegno di larga parte della comunità internazionale» nella fase successiva all’intervento militare.