Storia dei Foreign Fighters, da Garibaldi all’ISIS

Storia dei Foreign Fighters, da Garibaldi all'ISIS

Il 24 settembre del 2014, al termine di una sessione del Consiglio delle Nazioni Unite presieduta dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama e introdotta dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il Consiglio ha approvato all’unanimità la risoluzione 2178/2014.

L’obiettivo della risoluzione era una generica condanna contro l’estremismo islamico violento ed era diretta in particolare alle milizie dello Stato Islamico (ISIS), ma conteneva anche — e per la prima volta — la condanna del fenomeno dei combattenti stranieri che militano nelle fila dell’ISIS, i cosiddetti Foreign Fighters, un’etichetta che ormai si è imposta in inglese anche nei media italiani.

Già nella prima pagina della risoluzione possiamo leggere la definizione di cosa le Nazioni Unite intendono per Foreign Fighters:

[…] individui che si spostano in uno Stato diverso da quello in cui risiedono o hanno la nazionalità con il proposito di perpetrare, pianificare e partecipare ad atti terroristici, o per dare o ricevere addestramento terroristico

La definizione delle Nazioni Unite parte da presupposti ampiamente condivisibili — è chiaro — ma soffre di un vizio di forma: il riferimento reiterato al termine terrorismo. Il termine Terrore, ma soprattutto il suo derivato politico, Terrorismo, è un termine inutilizzabile nella scienza politica.

In un articolo pubblicato sul numero del giugno 2007 de Le Monde Diplomatique, il diplomatico e politologo francese Eric Rouleau scrive, a proposito del termine “terrorismo” che «rimane un concetto astratto, visto che la comunità internazionale non è mai riuscita a definirlo propriamente». Un paio di anni prima, nel 2005, il giornalista americano Phil Rees, nel suo libro Dining With Terrorists, sostiene l’indefinibilità del termine, legato indissolubilmente al soggetto che sceglie di utilizzarlo, il che lo rende inutile. Detto in parole povere: ognuno è il terrorista di qualcun altro, che lo accettiamo o no, dipende dai punti di vista.

«ognuno è il terrorista di qualcun altro, che lo accettiamo o no, dipende dai punti di vista»

Per questo, per affrontare l’argomento dei Foreign Fighters dobbiamo rifiutare l’uso del termine terrorismo, e quindi, in quella definizione dell’ONU — che sembrerebbe inutile per la scienza politica e, a rigor di logica, persino per qualsiasi tribunale internazionale — dobbiamo sostituirlo con un più neutro “atto di guerra” o un “militare”, il che renderebbe così quella definizione:

[…] individui che si spostano in uno Stato diverso da quello in cui risiedono o hanno la nazionalità con il proposito di perpetrare, pianificare e partecipare ad atti di guerra, o per dare o ricevere addestramento militare

Ora, lasciata da parte la natura estremamente minacciosa e volgarmente oscurantista del fenomeno ISIS, insieme alla sua brutalità ed efferatezza — dimostrata ampiamente dalle esecuzioni degli ultimi mesi, che non possiamo e non vogliamo certo esitare a definire barbare e deprecabili — analizziamo il fenomeno dei Foreign Fighters a partire dalla seconda definizione: sono individui che compiono atti di guerra fuori dal proprio paese.

Messa giù così, la definizione ci ricorda personaggi sparsi lungo tutta la storia dell’Umanità, personaggi che di volta in volta sono stati trattati da traditori o da eroi, da terroristi o da salvatori. Da cosa dipende il giudizio su di loro? Molto semplice, dalla Storia.

«Alla Storia non si possono applicare le leggi morali»

Alla Storia, così come alla strategia geopolitica (qualcuno dovrebbe ricordarlo a tanti dei nostri politici) non si possono applicare le leggi morali. E non perché i suoi protagonisti — noi compresi — non credano e non siano fedeli a una morale, che spesse volte nel Novecento a mandato a morire tanta gente, ma, più semplicemente, perché la Storia non la fa chi ha la morale “giusta” — anche perché di morale non ce n’è una sola e il concetto di giusto e sbagliato non è assolutamente pertinente in questo caso — la Storia, che lo vogliamo o meno, la fa chi resta vivo, la fa chi vince.

Di esempi celebri di cosiddetti Foreign Fighters, nella Storia ne troviamo a decine, e tutte le volte la loro storia ci pone di fronte alla stessa domanda: sono eroi o traditori? Il giudizio della maggior parte dei contemporanei dipende propende quasi sempre per la seconda opzione, ma è poco rilevante, perché è una domanda la cui risposta più veritiera la dà il tempo.

Partiamo da una mattina di maggio del 1837, quando dal porto di Rio de Janeiro, in Brasile, un marinaio italiano che di lì a poco avrebbe compiuto trentanni, salpò con una dozzina di compagni a bordo di una garopera, una nave da pesca di meno di trenta tonnellate.

Il suo obiettivo, sancito da una lettera di corsa firmata dal generale  della Repubblica Riograndese Joao Manoel de Lima e Silva, era “assalire e depredare” le navi dell’Impero Brasiliano, governato dalla casata portoghese dei Braganza. La nave da pesca era stata battezzata nel nome di Mazzini, il marinaio si chiamava Giuseppe Garibaldi e quel giorno iniziava la sua carriera di Foreign Fighter nel nuovo mondo. Era un terrorista? Per qualcuno sì. Per noi no, è Garibaldi, l’eroe dei due mondi.

Restiamo nel nuovo mondo e sul mare, ma spostiamoci di più di un secolo e di migliaia di chilometri a nord. È il 25 novembre del 1956, il porto è quello di Tuxpan, in Messico, e la barca, uno yacht di 18 metri, si chiama Granma. A bordo del Granma, che in teoria dovrebbe ospitare 12 persone, quel giorno ce ne sono 82. A comandare il gruppo c’è un giovane avvocato cubano che si chiama Fidel Castro, che insieme al fratello e ad altri esuli vuole spodestare il dittatore Fulgencio Batista e liberare il suo paese.

Insieme a lui c’erano moltissimi non cubani che andavano a combattere in un paese che non è il loro, dei Foreign Fighters. Il più famoso tra loro è senz’altro il medico argentino Ernesto Guevara de la Serna, il “Che”, che poi, dopo aver partecipato alla liberazione di Cuba, cercherà di esportare la lotta — da buon Foreign Fighter — prima in Africa, più precisamente in Congo, poi in Bolivia, dove verrà ucciso. Era un terrorista? Per molti, a cominciare dagli statunitensi, decisamente sì. Per molti altri — per me, per esempio — decisamente no.

Ernesto “Che” Guevara a Santa Clara, Cuba, 1958, Keystone/Getty Images

Guevara non era l’unico straniero. La storia della rivoluzione cubana abbonda di Foreign Fighters e, proprio accanto a Che Guevara, in quei giorni della traversata del Granma, ce n’era un altro, un italiano — l’unico europeo a partecipare alla rivoluzione a Cuba — Gino Donè Paro, ex partigiano nato in provincia di Treviso, che si dice salvò la vita al Che nei primi giorni dopo lo sbarco e che poi dovette fuggire dall’isola prima della fine della guerra civile che portò i ribelli — che per molti erano dei terroristi — a sconfiggere Batista. Era un terrorista anche lui? Per me no.

La storia dei Foreign Fighters potrebbe continuare a lungo, e conterrebbe i nomi di decine di personaggi: il poeta inglese Lord George Gordon Byron, per esempio, morto in Grecia durante la guerra di indipendenza degli anni Venti dell’Ottocento; o ancora, i tanti che combatterono nelle brigate internazionali durante la guerra civile spagnola — tra di loro, che le stime più credibili attestano sui 60mila — ci furono anche scrittori come George Orwell e André Malraux, artisti come Tristan Tzara e molti altri.

L’ultima storia che voglio aggiungere a questa breve e lacunosa lista è molto più antica, risale al VI secolo dopo Cristo, e riguarda un duca Longobardo di nome Droctulf, che abbandonò i suoi per combattere insieme ai bizantini.

La sua storia ha incuriosito tanti nel corso dei secoli, dallo storico longobardo — di poco posteriore — Paolo Diacono, che ne parla nella sua Historia Langobardorum nel 789, a Benedetto Croce, che ne parla ne La poesia, nel 1942. L’ultimo a interessarsi alla storia di Droctulfo è Jorge Luis Borges, che nel racconto Storia del guerriero e della prigioniera, contenuto nella raccolta L’Aleph, del 1949, ne reinterpreta la storia in una maniera interessa il discorso che abbiamo fatto fin qui.

L’interpretazione di Borges vale la pena di essere letta, anche se, come tutto quel che ha scritto, è completamente inventata:

Le guerre lo portano a Ravenna e là vede qualcosa che non ha mai vista, o che non ha vista pienamente. Vede il giorno e i cipressi in marmo. Vede un insieme che è molteplice senza disordine; vede una città, un organismo fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di gradini, di vasi, di capitelli, di spazi regolari e aperti.

Nessuna di quelle opere, è vero, lo impressiona per la sua bellezza; lo toccano come oggi ci toccherebbe un meccanismo complesso, il cui fine ignoriamo, ma nel cui disegno si scorgesse un’intelligenza immortale. Forse gli basta vedere un solo arco, con un’incomprensibile iscrizione in eterne lettere romane.

Bruscamente, lo acceca e lo trasforma questa rivelazione: la Città. Sa che in essa egli sarà un cane, un bambino, e che non potrà mai capirla, ma sa anche che’essa vale più dei suoi dèi e della fede giurata e di tutte le paludi della Germania. Droctulft abbandona i suoi e combatte per Ravenna. Muore, e sulla sua tomba incidono parole che non avrebbe mai comprese […].

Non fu un traditore (i traditori non sogliono ispirare epitaffi preziosi), fu un illuminato, un convertito. Alcune generazioni più tardi, i longobardi che avevano accusato il disertore, procedettero come lui; si fecero italiani, lombardi, e forse qualcuno del loro sangue – un Aldiger – generò i progenitori dell’Alighieri.

È sempre così, dipende sempre da chi resta in piedi per ultimo. È immorale? No, è la storia. E andare a combattere per qualcosa che si crede più importante di se stessi, per secoli è stata la cifra degli eroi. Ora i Foreign Fighters hanno volti brutali, spesso nascosti da passamontagna, e combattono per dei valori che noi consideriamo terrificanti in modi spesso aberranti. Non sono certo degli eroi. Almeno non lo sono per noi. È immorale che lo facciano? No, è la libertà di autodeterminazione, e vale per loro, come per noi, che dobbiamo combatterli.

«il fatto che l’ISIS ci faccia paura non può autorizzarci a negare la nostra cultura, diventando come coloro che detestiamo»

Ma il fatto che l’ISIS ci faccia paura, che sia il simbolo di tutto ciò che noi non siamo e che neghi con ferocia spesso insopportabile la natura stessa della nostra cultura, non può autorizzarci a negarla quella cultura, diventando come coloro che detestiamo. Combattiamoli, dunque, ma non chiamiamoli terroristi, sono solo dei nemici, nemici che probabilmente dicono che i terroristi siamo noi.

P.S. All’inizio di questo articolo ho citato un saggio scritto da Eric Rouleau, un grande realista della politica internazionale, che in francese si intitola Il bene, il male e il “terrorismo”, ma che nella versione inglese di Le Monde Diplomatique, il mensile su cui è stato pubblicato nel 2007, è stato tradotto come Does ‘global war on terror’ mask a new imperialism?. Una domanda che, se vogliamo veramente difendere la nostra cultura, non dovremmo smettere di porci.

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