«Mi dica una buona ragione per cui un imprenditore straniero dovrebbe venire a investire in Italia. Io non la conosco. Ormai anche la nostra società si sta organizzando, abbiamo appena chiuso un importante accordo in Croazia». Sergio Morandi è l’amministratore delegato di Rockhopper Italia, ex Medoil, azienda petrolifera britannica tra le principali che operano nel nostro Paese. Pochi giorni fa ha dovuto raccontare ai suoi referenti inglesi l’ultima novità legislativa nel settore della coltivazione di idrocarburi. «E ho avuto molta difficoltà a farmi capire». Al centro del caso è finito un emendamento presentato in Senato al disegno di legge sugli Ecoreati. Una proposta di modifica approvata «nonostante il parere negativo del governo e del ministro competente», che vieta la tecnica dell’airgun per i rilievi dei giacimenti in ambiente marino. Stando a quanto denunciano le società petrolifere è una norma che rischia di far chiudere quasi tutte le attività in Italia. «Facendoci perdere diversi miliardi di Pil l’anno e innumerevoli posti di lavoro», conferma Morandi.
Ma di cosa si tratta? L’airgun è una tecnica che permette di studiare la struttura della crosta terrestre in ambiente marino rilasciando onde sonore nel sottosuolo tramite aria compressa. Per diverse associazioni ambientaliste rappresenta un rischio non indifferente. Morandi non è d’accordo. «Questa tecnica è usata da almeno venti anni in tutto il mondo. È una tecnologia estremamente sicura, priva di conseguenze. Ma soprattutto è una tecnica già ampiamente usata anche per scopi scientifici: serve per ricostruire l’evoluzione geologica e individuare faglie sismiche e vulcani sottomarini». E allora perché il voto al Senato? «È stato un blitz parlamentare, preparato per mettere in difficoltà il governo e appagare il tornaconto elettorale di qualcuno». Approvato a Palazzo Madama, adesso il provvedimento passa alla Camera dei deputati. «Ma se la norma non sarà rivista – assicura Morandi – la fiducia degli investitori stranieri nel nostro Paese sarà definitivamente compromessa». Morandi conosce l’argomento. Ex geofisico, oltre al ruolo dirigenziale in Rockhopper è consigliere di Assomineraria, l’associazione di Confindustria che rappresenta oltre 140 imprese del settore. Sullo sfondo resta un tema dibattuto. In fin dei conti abbiamo davvero bisogno di estrarre petrolio in Italia? «Mi limito a osservare un paradosso – continua Morandi – Rinunciare alla produzione di idrocarburi per una questione ambientale ci renderà molto più vulnerabili. È una scelta che finirà solo per aumentare il traffico delle centinaia di navi petroliere che ogni anno solcano i nostri mari per approvvigionarci».
Dott. Morandi, è difficile attaccare un provvedimento tanto atteso come quello sui reati ambientali.
Infatti l’idea che ci sia una maggiore attenzione per i reati ambientali e più severità nelle pene ci trova pienamente a favore. E non vedo perché non dovrebbe. La nostra speranza è che siano individuati i veri reati attraverso criteri corretti.
Il problema è solo l’emendamento che vieta l’airgun?
Si tratta di una norma che non era prevista nel testo iniziale del disegno di legge. Una modifica, ricordo, che aveva il parere contrario sia del governo che del dicastero competente, il ministero dello Sviluppo economico.
Di cosa si tratta precisamente e quali sono i reali rischi per l’ambiente?
Guardi, io sono un ex geofisico. Conosco bene la materia. Anzitutto non si tratta assolutamente di sorgenti esplosive, come pure è stato raccontato. Parliamo di aria compressa. L’airgun è una sorgente di emissione tramite aria compressa di onde sonore nel sottosuolo per eseguire rilievi geofisici di sismica a riflessione in mare. È come una grande ecografia. Una metodologia sicura, che da ormai 20-25 anni ha soppiantato tutte le precedenti tecniche.
Ammetterà che qualche pericolo esiste, altrimenti non si spiegano tante polemiche.
Invece no, è stata riconosciuta in tutto il mondo come una tecnica environmental friendly. Di piena sostenibilità ambientale. Non lo dico solo io, lo hanno sempre confermato anche diversi studi tecnici.
E la fauna marina?
All’inizio dell’attività vengono avviati alcuni fenomeni di disturbo per far allontanare i pesci dall’area interessata. Appena terminati i rilievi, tutto torna come prima. Glielo dico in maniera cruda: non muore nessun pesce. Non è mai stata rilevata una situazione di questo tipo.
Eppure diverse associazioni sostengono che a pagarne le spese siano i cetacei. L’airgun provocherebbe perdita dell’udito e disorientamento.
Questo è un argomento sostenuto da alcune associazioni ambientaliste. Si tratta semplicemente di falsa informazione. Le cito una delle vicende più recenti: lo spiaggiamento di alcuni cetacei vicino Vasto (In Abruzzo, ndr), che con grande clamore è stato attribuito proprio all’utilizzo di airgun. Ebbene, in quel periodo non era in corso alcun rilievo geofisico. L’ultima attività, nell’offshore croato, era terminata da quasi un anno. In Italia, poi, la sismica a riflessione non si fa dal 2008… Credo che lo spiaggiamento dei cetacei derivi da problematiche ben più complesse. In quella zona, peraltro, non è un fenomeno inedito. Era successo qualche secolo fa. Ma già in epoca medievale si erano registrati diversi casi di cetacei spiaggiati. E non mi risulta che durante il Medioevo fossero in corso rilievi geofisici per ricerche petrolifere.
Non ci sono altre tecniche per conoscere i fondali? L’airgun è una tecnica usata anche all’estero?
Questa è la tecnica di più alta risoluzione per l’esplorazione del sottosuolo di tutti i mari. Con questo sistema sono stati acquisiti milioni di chilometri di fondali in tutto il mondo. Ma non solo. I rilievi di sismica a riflessione servono, oltre che per ricerche petrolifere, per studiare il sottosuolo dei mari per ogni tipo di scopo scientifico. Ad esempio la ricostruzione geologica, l’individuazione di faglie attive, la definizione di aree vulcaniche e lo spessore della crosta terrestre. Tantissimi istituti di ricerca svolgono questa attività. Per esempio in Italia l’Ogs (l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale, ndr). Stiamo parlando di tecnologia ad altissima qualità.
Secondo lei non ci sono rischi per l’ambiente. E allora perché il Parlamento avrebbe approvato l’emendamento che ne sospende l’utilizzo?
Sono sincero, mi stupisce che nel Parlamento italiano si possano introdurre dalla mattina alla sera norme di questo tipo. Senza alcuna conoscenza scientifica e senza procedere a specifiche audizioni. Emendamenti presentati, presumo, per mettere in difficoltà il governo e appagare il tornaconto elettorale di qualcuno. A quanto mi risulta in commissione non c’è stato nessun tipo di approfondimento. Importanti enti di ricerca come Cnr, Ispra e Ingv (Consiglio nazionale delle ricerche, Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale, Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, ndr) non sono mai intervenuti durante i lavori. Mi spiace dirlo, ma queste sono vicende che squalificano il nostro Parlamento.
Il governo era contrario, ma secondo indiscrezioni il ddl sarà approvato senza modifiche anche alla Camera. Intanto il ministro dell’Ambiente ha ipotizzato una correzione nel giro di qualche mese.
Ho grandi difficoltà a spiegare queste dinamiche ai miei referenti inglesi. Anche perché questo provvedimento è solo l’ultimo di una serie di interventi legislativi che definirei illogici, oltre che anti industriali. Continui emendamenti che finiscono per mettere in difficoltà un settore che garantisce al PIL italiano alcuni miliardi di euro l’anno. Ma soprattutto squalificano l’Italia agli occhi degli investitori stranieri. Guardi, se questa norma sull’airgun non sarà stralciata o eliminata in tempi brevi con un provvedimento ad hoc, la fiducia nei confronti del nostro Paese sarà definitivamente compromessa. Questo settore rischia di chiudere. Le fornisco una cifra: negli ultimi anni gli investimenti stranieri sono cresciuti o rimasti costanti in tutti i 28 paesi dell’Ue, solo in Italia sono crollati del 70 per cento. È un dato che deve far riflettere, soprattutto in una fase di forte recessione economica.
Ipotizzate una perdita virtuale di posti di lavoro?
Non solo virtuale. La perdita dei posti di lavoro è già una realtà. Le società di servizio vengono ristrutturate e delocalizzate. Le compagnie petrolifere stanno già diversificando le proprie strategie investendo in altri Paesi. Spesso proprio nel bacino mediterraneo.
E la sua azienda?
Ci stiamo muovendo anche noi. Abbiamo già un accordo nell’offshore croato con Eni. È una scelta obbligata, in Italia non si riesce a lavorare. Al di là del ddl sugli Ecoreati le potrei citare i lunghi processi autorizzativi, i conflitti legislativi tra Stato e Regioni, la confusione delle competenze, la totale mancanza della certezza del diritto. Qui non si possono più programmare né attività né investimenti. Mi scusi, ma ormai perché un imprenditore straniero dovrebbe venire a investire qui?
Se le società petrolifere se ne vanno dal nostro Paese è necessariamente un male? Insomma, abbiamo davvero bisogno del petrolio italiano?
In Italia noi estraiamo circa il 10 per cento del nostro fabbisogno di petrolio e il 5 per cento del nostro fabbisogno di gas. Parlando solo di gas potremmo arrivare a produrre anche il 10-15 per cento, solo mettendo in produzione i giacimenti già scoperti. La situazione non è molto diversa da altri paesi importatori di idrocarburi, che però non rinunciano a sfruttare tutte le risorse petrolifere nazionali. Il motivo è semplice: il petrolio prodotto in casa genera Pil, ricchezza e occupazione. Ma anche un importante risparmio sulla bolletta energetica di un Paese. Oggi la bolletta energetica in Italia vale circa 60 miliardi di euro l’anno. Se anche si potesse risparmiare qualche miliardo grazie alla produzione nazionale, ci troveremmo a disposizione rilevanti risorse da investire altrove.
Però mettiamo il Paese al riparo da disastri ambientali.
Rinunciare alla produzione di idrocarburi per una questione di estrema precauzione ambientale è una scelta che paradossalmente ci rende molto più vulnerabili. Perché significa semplicemente aumentare il traffico delle centinaia di petroliere che ogni anno già navigano nei nostri mari per approvvigionarci. E non è una questione di poco conto: la produzione di idrocarburi contribuisce all’inquinamento dei mari in percentuali minime. Oltre il 90 per cento è dovuto, in parti uguali, alla navigazione marittima e ai fiumi che portano in mare i residui dell’attività umana.