Internet in Cina, così il governo controlla e censura

Internet in Cina, così il governo controlla e censura

«Oltre la Grande muraglia, possiamo raggiungere qualunque angolo del mondo». Una frase che è passata alla storia. Si tratta della prima entusiasta email spedita dalla Cina. Era il 14 settembre del 1987, una data che segna un traguardo raggiunto e un nuovo inizio. Oggi, a quasi trent’anni di distanza, gli internauti cinesi battono tutti i record: otre 649 milioni di utenti e quattro milioni di siti. E sono cinesi quattro delle dieci più grandi aziende dell’information technology (It) a livello globale. Il commercio online ha superato i numeri degli Stati Uniti e continua a crescere a ritmi vertiginosi. Nel 2014 le transazioni hanno superato i duemila miliardi di dollari, il 25 per cento in più rispetto all’anno precedente. È le previsioni parlano di un tasso di crescita che si manterrà costante anche quest’anno. Un mercato che nessuno può permettersi di ignorare, ma con caratteristiche tutte proprie. Prima tra tutte il Grande Firewall, anche per questo quella prima mail suona profetica.

Una moderna muraglia

La grande muraglia è una delle opere d’ingegno più mastodontica e duratura che la civiltà umana ha prodotto. Non sempre ha tenuto lontano i “barbari”, ma li ha fatti entrare nell’Impero di mezzo in maniera controllata. Nei secoli alcuni temuti nomadi hanno perfino preso il potere e creato nuove dinastie. Non prima però di essersi conformati alla cultura locale. Varcare la Grande Muraglia significava essere consapevoli della grandezza della civiltà cinese, saper trattare con i mandarini e, soprattutto, adeguarsi alle loro regole. Il Grande Firewall, moderna muraglia digitale, è nato nel 1996 più o meno con lo stesso antico scopo: controllare le informazioni che entrano nel paese ed evitare l’ingresso di quelle più “pericolose”. Negli anni si è trasformata in una vera propria infrastruttura capace di bloccare parole chiave, pagine e perfino interi domini web. Provate a digitare le parole sulla lista nera, a entrare nel sito del New York Times o ad accedere a Twitter dal territorio cinese. Il risultato sarà sempre lo stesso: “errore 404”, “pagina non trovata”. 

Sovranità sulla Rete

La parola d’ordine del governo è wangluo zhuquan, “sovranità sulla rete”

Il Partito, quell’entità che nella Repubblica popolare si sovrappone quasi completamente allo Stato, è riuscito così in qualcosa che in pochi avrebbero creduto realizzabile: la costruzione di un internet nazionale, in tutto e per tutto simile al resto della rete. Ma separato. All’interno gli internauti cinesi si muovono come i loro colleghi nel resto del mondo. L’ambiente è caotico, ci sono blog, chat e informazioni. Si può giocare, vedere film, ascoltare musica e fare shopping. Ma a guardia dell’intero traffico ci sono paternalistici censori che giudicano, secondo le direttive del Partito, su cosa è giusto discutere e quali sono i social e le applicazioni che rispettano le (loro) regole.

La parola d’ordine è “wangluo zhuquan”, ovvero “sovranità sulla rete”. Una politica che si è fatta più chiara e pressante dopo le rivelazioni di Snowden secondo le quali gli Stati uniti avrebbero spiato il cyberspazio cinese per anni arrivando a intercettare l’ex presidente Hu Jintao il ministro del commercio e ad accumulare illegalmente dati di banche e aziende importanti come la Huawei. Anche per questo Xi Jinping, da quando è al potere, ha cercato di centralizzare ulteriormente il controllo su Internet attraverso la creazione di due nuovi organi: il Gruppo dirigente centrale per il cyberspazio, presieduto da lui stesso, e l’Ufficio di informazione per l’Internet dello stato, diretto da Lu Wei. Il primo dovrebbe sovraintendere e sviluppare «le strategie nazionali, i piani di sviluppo e le politiche più importanti» mentre il secondo di trasformarle in legge e farle applicare. Il presidente non si stanca di affermare che le tecnologie internet non devono violare la “sovranità sulla rete” del paese, mentre il secondo ripete senza sosta che alle aziende straniere è permesso fare affari in Cina solo in obbedienza alla legge cinese. In un editoriale aperto, ospitato dall’Huffington Post, è stato ancora più esplicito: «Le aziende statunitensi che operano in Cina dimostrano che chi rispetta la legge cinese può sfruttare le opportunità offerte dalla rete cinese. Chi sceglie di opporsi sarà isolato e costretto ad abbandonare il mercato cinese».

Sovranità o protezionismo?

La camera di commercio europea ha recentemente emesso un comunicato in cui denuncia come la Repubblica popolare stia lentamente trasformando «internet in una intranet»

Il mercato It della Repubblica popolare dovrebbe crescere di un altro 11 per cento nel 2015, raggiungendo un giro d’affari superiore ai 460 miliardi di dollari. È senza dubbio un mercato che fa gola a molti. Bene, il governo cinese ha appena redatto la lista di computer e sistemi operativi che ministeri e pubblici uffici possono comprare e adoperare. L’anno scorso era sparito Windows8, quest’anno spariscono Cisco, Apple, Intel e McAfee a favore dei concorrenti locali. Complessivamente, il numero di prodotti che i ministeri possono inserire nei loro budget è più che raddoppiato salendo da 2 a 5mila, ma nessuna dei nuovi ingressi è un prodotto con marca straniera. Cisco, l’azienda americana concorrente alla sopracitata Huawei, nel 2012 aveva una sessantina di prodotti in questa lista. Quest’anno, stando alle fonti di Reuters, non ne avrà neanche uno. Potrebbe essere una risposta alle rivelazioni Snowden o semplicemente un caso di protezionismo economico. Di fatto risponde a entrambe le esigenze e mette in luce quanti erano in molti a sospettare. La Cina sta cercando di avvantaggiare le aziende cinesi a danno dei concorrenti stranieri. E questi ultimi hanno sempre più difficoltà ad operare sul suo mercato.

La camera di commercio europea ha recentemente emesso un comunicato in cui denuncia come la Repubblica popolare stia lentamente trasformando «internet in una intranet», una di quelle reti aziendali ad accesso ristretto, limitato o riservato per gli utenti. Questo, si legge ancora nel comunicato, influenza il mondo degli affari e di fatto «costituisce una tassa corporativa». L’80 per cento delle aziende europee intervistate – infatti – percepisce un ulteriore restringimento dell’accesso alla rete avvenuto tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2015. Con conseguenti lungaggini nel lavoro quotidiano e nella comunicazione con le aziende madri, collocate fuori dalla Grande Muraglia.

Una gabbia dorata

Per definire l’Internet cinese, sempre più spesso i commentatori stranieri fanno ricorso alla definizione di “gabbia dorata”: può renderti ricco ma al prezzo di costanti limitazioni e compromessi. Da giugno scorso, i controlli su media e social media si sono fatti più frequenti e efficaci. E a seguito delle proteste di Hong Kong, la stretta del governo su internet si è fatta sempre più pesante. Instagram e Google sono stati bloccati completamente. Da ottobre le autorità hanno lanciato ripetuti attacchi contro Yahoo, Google, Microsoft e Apple. Gmail non funziona più da dicembre, neppure scaricando la posta su server terzi. Di fatto a chiunque abiti in Cina e voglia accedere a informazioni e social media in uso nel resto del mondo è indispensabile affidarsi a servizi che reindirizzano il traffico internet fuori dal Grande Firewall. Ma da gennaio, il governo ha colpito anche questi ultimi. 

Internet in Cina è una gabbia dorata: può renderti ricco ma al prezzo di costanti limitazioni e compromessi

Una mossa arrivata quasi in contemporanea a un nuovo progetto di legge che insiste sul fatto che le aziende It che operano sul territorio cinese devono conservare i dati degli utenti in server ubicati all’interno della Repubblica popolare e garantire al governo l’accesso ai codici sorgenti dei loro software. Conoscere il codice sorgente di un programma significa anche avere accesso alle backdoor, quelle “porte di servizio” che consentono di superare in parte o in tutto le procedure di sicurezza attivate da un sistema informatico o un computer e permettono dunque di violarne la memoria e accedere a dati riservati. In poche parole, si tratta degli accessi principali attraverso i quali i censori possono monitorare da un computer remoto il traffico e le informazioni digitali su dispositivi altri.

È indubbio che questo ridurrà ulteriormente la già poca privacy a cui sono abituati gli utenti che si collegano dal territorio della Repubblica popolare, ma è altrettanto chiaro che le nuove misure saranno un nuovo ostacolo per quelle aziende straniere che vogliono lavorare nel mercato più grande e a più rapida espansione del mondo. Prova ne è che nessuno di loro ha ancora rilasciato nessuna dichiarazione ufficiale in merito a questa nuova bozza di legge. Si trovano di fronte a un rompicapo. Difficile rinunciare al mercato cinese, ma altrettanto controproducente potrebbe essere spiegare un passo indietro sulla privacy a clienti e azionisti ubicati nel resto del mondo. 

E intanto i concorrenti locali continuano a crescere. Bat, la triade dell’It cinese – Baidu (motore di ricerca), Alibaba (sito di ecommerce) e Tencent (social network) – ha registrato una crescita incredibilmente rara nel panorama dell’industria Internet globale: il 50 per cento in più nell’ultimo quadrimestre del 2014. 

Niente più tunnel?

«Questo è solo un altro modo della Cina per dire “non vi vogliamo”». Così Astrill, uno tra i due vpn stranieri più utilizzati per superare la censura cinese, qualche settimana fa ha salutato con un pop up i suoi clienti. Se siete abituati a navigare nel mondo libero, probabilmente non ne avete mai sentito parlare. Il vpn o virtual private network è un servizio che cripta e reindirizza il traffico internet. Ad esempio questo articolo è stato scritto in una redazione a Pechino, ma la sua autrice risulta connessa da Hong Kong una città esterna al Grande Firewall. Bloccando gli strumenti di questo tipo, le autorità cinesi di fatto lasciano sempre meno possibilità di aggirare il Grande Firewall, forzando indirettamente gli internauti ad affidarsi ai servizi offerti dalle aziende cinesi.

Più le persone usano i servizi offerti dalle aziende cinesi, meno ci sarà bisogno di Grandi Muraglie

Se il governo riesce a spingere sempre più utenti ad utilizzare i servizi offerti dalle aziende domestiche – che per inciso controlla più facilmente – è un’ulteriore passo in avanti verso quella che chiama pubblicamente “sovranità sulla rete”. Di questo passo, presto non avrà più bisogno di chiedere a Yahoo i dati dei suoi utenti o ad Apple di eliminare qualche applicazione dallo store cinese. E non dovrà neanche più intimare a LinkedIn di rimuovere i contenuti negativi sulla Cina dalla sua piattaforma. Perché?  Perché saranno veramente pochi gli internauti all’interno della Grande Muraglia in grado di aggirare il Grande Firewall per utilizzarli. Peraltro al momento le vpn cinesi funzionano molto meglio di quelle straniere, soprattutto sugli smartphone. Un altro elemento che lascia pensare che, oltre alla censura sui contenuti scomodi, le considerazioni economiche siano sempre più importanti per chi regola l’intranet cinese.

Il peso economico della censura

È giusto e normale che la Repubblica popolare veda in Internet il grilletto che faccia esplodere la propria industria dell’innovazione, ma la sua attitudine al controllo potrebbe avere effetti negativi anche sulle aziende cinesi. Ne è convinto  Jörg Wuttke, presidente della Camera di commercio europea quando asserisce che «le aziende cinesi sono frustrate quanto i nostri membri». Il problema è  anche di infrastrutture. Pur ospitando la più vasta popolazione di utenti a livello mondiale, la Repubblica popolare si colloca 93esima per velocità della rete, il tasso di connettività è di media meno di un quarto di quello di Hong Kong. Ciò è dovuto all’incessante attività dei censori e al fatto che l’intero traffico nazionale ha soli tre punti di entrata e uscita dal paese: Pechino, Shanghai e Guangzhou. 

La lentezza della rete influisce negativamente sulle ore-lavoro di qualsiasi impiegato. Per non parlare di chi fa dell’innovazione tecnologica il suo core business. Pin Wang fondatore di una start up di videogames a Pechino, sintetizza così la sua frustrazione al quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post: «Ciò che dovrebbe essere fatto in 15 secondi, prende dai tre ai cinque minuti con conseguenti ricadute sul lavoro. Siamo una start up e non abbiamo le risorse per trasferirci, ma ne riparleremo a tempo debito». Così mentre le grandi aziende dell’It cinese prosperano in assenza di competizione, quelle piccole o appena nate faticano ad affermarsi, strangolate dalle regole e dalla lentezza della rete nella Repubblica popolare.

La portavoce del ministero degli esteri Hua Chunying ha risposto alle accuse della Camera di commercio europea – a cui ha fatto subito eco quella americana – mostrando un rapporto Onu che dimostra come la Repubblica popolare sia diventata la principale destinazione degli investimenti esteri nel 2014.  Un modo di mettere in dubbio la sfiducia che le due Camere di commercio che fanno base a Pechino registrano tra i propri membri. Ma i dati riportati evidentemente non tengono conto dello scontento che serpeggia tra gli imprenditori stranieri  e cinesi. I primi si chiedono sempre più spesso fino a che punto si possa pagare per essere presenti sul mercato della seconda economia mondiale. I secondi stanno prendendo le loro decisioni. Un sondaggio di Barclays condotto tra i cinesi con un patrimonio personale superiore al 1,5 miliardi di dollari mostra come il 47 per cento programmi di lasciare la Cina entro i prossimi cinque anni. Piani quinquennali permettendo, verrebbe da aggiungere.

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