Non ha mai disdegnato le iperboli, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, detto Bibi, e a gennaio, dopo il massacro all’Hypercacher di Parigi, in un meeting con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, ha associato l’Europa Occidentale a una triade di concetti, “islamizzazione”, “antisemitismo” e “antisionismo”, come se uno spettro si aggirasse per il Vecchio Continente, facendo di ogni ebreo un potenziale bersaglio.
Platea non casuale, quella scelta dal premier più longevo della storia d’Israele, un primato che condivide con il fondatore dello Stato, Ben Gurion. Sì, perché nel processo logico e retorico di Netanyahu le conseguenze di quest’ondata anti-ebraica sono anche di ordine economico: «Il nostro Paese deve assicurarsi un futuro guardando ad altri mercati, in tutto il mondo, soprattutto ad Est. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dall’Europa Occidentale».
La Ue è ancora il primo partner commerciale di Gerusalemme, ma l’ascesa dell’Asia è incalzante, a tal punto che il continente nel 2014 ha superato gli Stati Uniti al secondo posto di questa graduatoria
La Ue è ancora il primo partner commerciale di Gerusalemme, ma l’ascesa dell’Asia è incalzante, a tal punto che il continente nel 2014 ha superato gli Stati Uniti al secondo posto di questa graduatoria. E il futuro vede un’Israele con la testa, e i capitali, sempre più verso Oriente e sempre meno verso Occidente. La vittoria del Likud nelle elezioni di martedì non è stata accolta di buon grado dalle cancellerie europee, che auspicavano un cambio della guardia e tifavano (segretamente) per il candidato laburista Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni.
I dissidi tra Netanyahu e l’Europa non risparmiano alcun dossier, dall’indipendenza palestinese al nucleare iraniano. In campagna elettorale Bibi non ha perso occasione per attaccare il lassismo occidentale di fronte alla minaccia islamica, cercando di sfruttarlo a proprio vantaggio. Al primo ministro francese, Manuel Valls, non è piaciuto affatto l’invito agli ebrei europei, lanciato dal premier di Gerusalemme all’indomani degli attentati di Parigi: «Venite in Israele, questo continente non è più un luogo sicuro per voi».
In Europa le iniziative anti-israeliane si sono moltiplicate negli ultimi tempi, soprattutto in ambito accademico. Ha fatto rumore il boicottaggio lanciato dalla School of Oriental and African Studies (SOAS) della University of London, che ha votato a maggioranza la rottura della collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, proprio a causa della questione palestinese. Per simili ragioni, sessantatré parlamentari europei a novembre hanno chiesto a Federica Mogherini la sospensione dell’accordo di Associazione tra la Ue e lo Stato ebraico, entrato in vigore nel 2000. In tempi recenti, l’Unione ha iniziato ad etichettare i prodotti fabbricati nelle colonie della West Bank, considerate illegali secondo il diritto internazionali. Il boicottaggio commerciale dell’industria israeliana – o perlomeno di quella degli insediamenti – è un fenomeno minoritario, ma prende sempre più corpo (Thomas Friedman sul New York Times ha parlato esplicitamente di Terza Intifada).
Gerusalemme ha bisogno di un piano B e l’alternativa all’Europa, economica e, in futura, geopolitica, potrebbe essere l’Asia
Le statistiche raccontano un aumento del numero di ebrei europei che ogni anno decidono di emigrare in Palestina, ma a preoccupare sono soprattutto i rapporti tesi tra i governi occidentali e quello israeliano. Gerusalemme ha bisogno di un piano B e l’alternativa all’Europa, economica e, in futura, geopolitica, potrebbe essere l’Asia. Le frasi pronunciate una settimana fa dal presidente israeliano Rivlin, di fronte a una ventina di ambasciatori del suo Paese, sembrano un manifesto programmatico: «Le relazioni amichevoli tra Israele e le potenze crescenti dell’Asia rappresenta un’opportunità economica e strategica per entrambi. Per uno Stato che cerca nuovi mercati, il legame con i Paesi asiatici è fondamentale. Ci stiamo rivolgendo sempre più ad Oriente, in tanti campi: educazione, industria, turismo, sicurezza».
Al momento i rapporti commerciali sono ancora sbilanciati a favore dell’Europa. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, Israele, da gennaio a novembre 2014, ha importato dal Vecchio Continente beni e servizi per 70,1 miliardi shekel (un euro, al cambio attuale, vale 4,37 shekel), esportando 49,9 miliardi. Nello stesso periodo, le importazioni dall’Asia sono state pari a 44,1 miliardi, le esportazioni 31,7.
Questi numeri sono destinati a cambiare. La visita di Abe in Israele, la prima di un premier giapponese negli ultimi nove anni, ha coinciso – non casualmente, nei piani dello Stato Islamico – con l’ultimatum per il riscatto degli ostaggi di Tokyo in mano al Califfato, poi decapitati. I due Paesi hanno annunciato una cooperazione in materia di antiterrorismo, che si può facilmente estendere all’economia. Del resto, l’approccio di Abe è stato quello giusto. Nell’incontro con Rivlin ha ricordato il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, come se volesse stabilire un parallelo tra la Shoah degli anni Quaranta e lo spettro di un nuovo Olocausto. Premesse dovute, per stabilire relazioni sempre più cordiali e lavorare a un trattato sugli investimenti e a una sinergia forte nei settori ad alta tecnologia, come la sicurezza informatica e quella energetica (a luglio i due Paesi hanno firmato un memorandum di cooperazione in materia di ricerca e sviluppo, la prima intesa di questo tipo mai firmata dal Giappone).
Israele in Oriente esporta soprattutto armi (quattro miliardi di dollari nel 2013) e in questo campo il partner privilegiato è l’India. Nuova Delhi è il primo acquirente di armamenti israeliani e con l’elezione di Narendra Modi i rapporti tra i due Paesi, che per decenni erano stati tutt’altro che calorosi, a causa dei forti legami tra l’India e il mondo arabo, sono migliorati, a tal punto che si sta negoziando un trattato di libero scambio.
Israele è il secondo fornitore di tecnologia militare a Pechino, dopo la Russia. Recentemente cinesi ed israeliani hanno firmato un programma di cooperazione di durata triennale, con un focus sull’energia
E poi, ovviamente, c’è la Cina, terzo partner commerciale dello Stato ebraico. Israele è il secondo fornitore di tecnologia militare a Pechino, dopo la Russia. Recentemente cinesi ed israeliani hanno firmato un programma di cooperazione di durata triennale, con un focus sull’energia. Anche in questo caso i due Paesi lavoreranno a un accordo di libero scambio. E l’intesa con la seconda potenze economica mondiale non è priva di risvolti politici. Non è un mistero che i rapporti tra Israele e Stati Uniti non siano idilliaci e sono circolate voci di un ripensamento della tradizionale politica di Washington a sostegno delle ragioni israeliane, nell’ambito del consiglio di sicurezza dell’Onu. Forse un giorno Netanyahu a Palazzo di Vetro avrà bisogno di un veto cinese, in sostituzione di quello americano.