Calcio e mafia, un binomio che affonda le radici nei primi casi di “totonero” e calcio-scommesse, fino al possesso delle società stesse, utilizzate come lavatrice di denaro sporco o macchine da consenso. In orbita calcio-scommesse la criminalità organizzata ha sempre detto la propria, e gli ultimi casi ne sono un perfetto riscontro con interessi e organizzazioni che valicano i confini nazionali. Ma più che il «giro grande» qui si parla di quello minore, amatoriale, che si gioca la domenica mattina sui campetti dell’hinterland delle grandi città, da Nord a Sud, dove non ci sono le showgirl della televisione o gli stipendi a sei zeri. È il pallone fatto dalla gente di quartiere o di paese, dove tutti si conoscono e dove chi vuole comandare ha bisogno di largo consenso per trovare nuovi affiliati o adepti.
È qui che la ‘Ndrangheta, la mafia, la camorra o la Sacra Corona Unita riciclano i soldi della criminalità organizzata e coltivano il consenso popolare attraverso lo sport. Gestiscono squadra di calcio locali, i proventi delle attività illecite servono a finanziare anche questo, per sostituirsi allo Stato e diventare un punto di riferimento per la società civile. E in alcuni casi la criminalità mafiosa, si legge nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia, è diventata la base dell’esistenza, «un atteggiamento verso la quale è in atto una sorta di assuefazione e di sottovalutazione della pericolosità quando non anche – sulla spinta della perdurante crisi economica – una enfatizzazione del ruolo mediante il riconoscimento di una specifica capacità regolatrice dei rapporti nella società civile – frequentemente in sostituzione degli organi istituzionali dello Stato – o con l’utilizzazione delle risorse economiche a disposizione della criminalità organizzata e della sua capacità di controllo del territorio anche per lo svolgimento di attività imprenditoriali o per il soddisfacimento di ambizioni politiche».
Non è solo però il giro delle scommesse e delle partite truccate a vedere protagonista le associazioni criminali nostrane. Negli anni il calcio è diventato in Italia una utile macchina da consenso elettorale, economico e finanziario. Permette di stringere relazioni sul territorio, farsi apprezzare da strati sociali diversi e rimettere in campo personaggi dall’immagine compromessa. Qualche anno fa lo stesso Raffaele Cantone, ex magistrato e attuale presidente dell’Anac, l’organismo anticorruzione, notava come «un tempo erano gli imprenditori come Berlusconi, De Laurentiis, Moratti o Della Valle ad acquistare squadre di calcio per fare affari e conquistarsi il bene della gente, oggi anche la Camorra segue la stessa strategia con club medio piccoli o facendo passare l’immagine di essere in contatto con i grandi delle squadre di serie A».
È soprattutto il calcio delle serie minori ad attirare gli appetiti delle cosche, perché è qui che si stringono i legami più forti col territorio, l’imprenditoria e gli sponsor del luogo e dove, lontano da occhi indiscreti, si possono riciclare anche quantitativi di denaro importante. Scrive la Dna nella relazione: «La cooptazione di esponenti della criminalità organizzata alla ricerca di consenso (alcuni dei quali condannati per associazione di tipo mafioso) nelle squadre di calcio (ultimo caso in questo periodo è la nomina a presidente della Asd Pro Italia Galatina di Luciano Coluccia, a suo tempo destinatario di misure di prevenzioni antimafia) costituisce un segnale emblematico di quanto appena rilevato, alla stregua della duplice valenza che tali incarichi hanno per l’associazione mafiosa, consentendole da una canto l’accesso ad un canale di riciclaggio dei proventi delle attività illecite attraverso investimenti apparentemente legali mediante le società di calcio stesse e, dall’altro, la costruzione di un’immagine pubblica che ottenga consenso popolare, stante il diffuso interesse agli eventi calcistici».
Riassume il concetto Pierpaolo Romani nel suo “Calcio Criminale”: «Meno pallottole e più pallone per i mafiosi significa ridurre i rischi di arresto, di sequestro e confisca di beni e, di conseguenza, rafforzamento del proprio potere e della propria impunità». Lo stesso si può dire per una sorta di autorità riconosciuta agli uomini dalle cosche da parte di alcuni sportivi. Scriveva il Corriere nell’ottobre 2012 : dalla medaglia d’oro consegnata dal fuoriclasse brasiliano dell’Avellino Juary al boss Raffaele Cutolo nel 1980 («Né prima né dopo in Europa c’è stato un riconoscimento così plateale dell’autorità mafiosa») a intere squadre in mano alle mafie. come la Mondragonese di Renato Pagliuca, fedelissimo del boss Augusto la Torre, oppure l’Albanova, che militava nella C2, aveva la serie C1 a portata di mano (grazie anche a un bomber come Ciro Muro) e invece è scomparsa quando è scomparso Francesco Schiavone, arrestato.
E ancora: la scalata alla Lazio tentata dai Casalesi (che portò a un ordine di arresto per Giorgio Chinaglia, uno dei miti del calcio italiano), la Sanremese finita in mano alla ‘ndrangheta che per non pagare gli stipendi decise di far andar via con le minacce i calciatori più pagati (puntarono anche una pistola al ginocchio del Pampa Sosa, ma lui li denunciò), lo spareggio per salire in serie C tra Locri e Crotone (maggio ’87, un pentito ha rivelato che il Crotone comprò la promozione offrendo Kalashnikov e bazooka ai boss che controllavano il Locri in cambio del pareggio).
Anche a nord sono diventati noti i casi dell’ex presidente del Varese Calcio, finito nell’inchiesta ‘ndrangheta banking vittima di usure mai denunciate, e del passaggio di proprietà della Spal che per un periodo ha attirato le attenzioni di un gruppo sospettato di avere legami con la stessa organizzazione criminale. Giambortolo Pozzi, ex direttore generale si presenterà dagli usurai. Correva l’anno 2011, dopo qualche mese la Spal verrà ceduta e a contendersela per un periodo c’era anche una “cordata milanese” con interessi nel fotovoltaico e nell’immobiliare. Alla fine la società emiliana finirà alla famiglia Colombarini, signori della Vetroresina.