Un viaggio lungo mezzo secolo. Dagli esordi negli anni Cinquanta, pioniere tra i precari in Rai, all’epurazione di fine anni Novanta. La carriera di Gianni Minà coincide per larghi tratti con la storia della televisione pubblica italiana. E non solo quella. Scrittore, documentarista, cronista sportivo, autore tv. Lui preferisce definirsi un «giornalista libero». La riforma di Viale Mazzini annunciata dal governo Renzi è il pretesto per una lunga chiacchierata. I primi programmi di successo, Barendson e Zavoli come maestri, l’influenza della politica nell’informazione. «Oggi non guardo più molta tv» ammette. Tra i ricordi restano i tanti successi e i riconoscimenti. Ma anche quell’allontanamento, vent’anni fa, dalla televisione pubblica, mai digerito. «Ho rotto le scatole a qualcuno. E mi hanno escluso»
L’esordio in Rai lo ricorda bene. «Era il 1959 quando sono entrato in via Teulada per la prima volta». Roma sta per ospitare la XVII edizione dei Giochi Olimpici, Gianni Minà aveva da poco compiuto venti anni ed esordito al Tuttosport diretto da un altro maestro, Antonio Ghirelli. «All’epoca seguivo lo sport», racconta. Gli viene affidato il pugilato. È una disciplina che non conosce ancora bene, ma di cui presto si innamorerà. «Ho imparato in fretta». Ed è proprio la passione per i guantoni che lo farà incontrare con Muhammad Alì, il leggendario campione afroamericano, leader delle lotte per i diritti civili sul quale girerà uno storico documentario. In Rai Minà inizia con un contratto di altri tre mesi. Poi un altro, un altro ancora. Ma, per essere assunto, dovranno passare diciassette anni. Suo malgrado diventa un pioniere del precariato. « Ancora oggi ne sono orgoglioso – rivela – Come sono orgoglioso di un’altra cosa: non ho mai raccontato balle. Quando preparo un servizio la mia ricerca dei particolari è maniacale. Sfido chiunque a smentire uno solo dei miei documentari».
Passano gli anni, la televisione pubblica cambia. Oggi il presidente del Consiglio chiede di tagliare ogni legame tra la politica e Viale Mazzini. «E fa bene – spiega Minà – quei legami esistono, sono sempre esistiti. Io l’ho scoperto sulla mia pelle. Non mi sono mai piegato e questo in Rai non me l’hanno perdonato». Il giornalista ricorda ancora le prime discussioni. «Nelle redazioni c’era un controllo parapolitico – racconta – Mentre montavo i servizi alcuni funzionari premevano per dirmi cosa tagliare e cosa mandare in onda. Io li ho sempre ignorati». Ora Matteo Renzi propone di affidare la gestione dell’azienda a un amministratore delegato indicato dal governo. «È una follia. Credo invece che dovremmo importare il modello della Bbc. È una televisione che tutela il servizio pubblico, con un’informazione acuta, ma che produce anche i migliori sceneggiati». Nel sistema britannico i dirigenti vengono selezionati attraverso bandi pubblici, il Parlamento non interferisce. Ma per cambiare il sistema in Italia si deve partite da alcune certezze. «Sono favorevole al canone, assolutamente – dice Gianni Minà – Ci deve essere e lo devono pagare tutti». Le ipotesi di privatizzazione? «Chi ne parla ignora cosa significhi “servizio pubblico”. Oppure è semplicemente in malafede. Il privato, come ha dimostrato spesso la tv commerciale, pensa solo ai propri interessi, ad abbassare i costi. E per fare questo deve per forza abbassare la qualità. Non è un caso che la Fininvest certi programmi, come Scherzi a parte, li replichi da decenni per esigenze di pubblicità».
Onesto e disarmante. «Sono sincero, ormai non guardo più molto la tv» racconta con un sorriso. Gianni Minà, poi, ammette che in Rai i telegiornali sono troppi, «ne basterebbero un paio». Ma preferisce non entrare troppo nel dettaglio sull’offerta della televisione pubblica. È una questione di stile, soprattutto. «L’Arena di Massimo Giletti? Beh, ognuno fa quello che ritiene più giusto». L’insistenza del cronista quasi lo infastidisce. «Non mi faccia proseguire – continua – Io non mi permetto di giudicare altri colleghi. Certo, spesso si ha quasi la sensazione che ci sia una inusitata prevenzione nel giudicare un argomento scabroso, come ad esempio le guerre degli Stati Uniti o gli egoismi della comunità europea o le politiche della NATO. Insomma, un pregiudizio». La Rai di qualche tempo fa era ovviamente molto diversa. «Oggi bisognerebbe educare una nuova generazione di autori televisivi veramente al passo con i tempi». Gianni Minà sa quello che dice. In carriera ha lavorato con personaggi entrati nella storia della tv italiana. «Ricordo con affetto Maurizio Barendson, ma anche Sergio Zavoli, un professionista incredibile». Dell’ex presidente Rai, oggi senatore, ha un giudizio ammirato: «Lui ha sempre avuto il senso del servizio pubblico. Quando noi scrivevamo i testi dei nostri reportage, come vicedirettore li leggeva ma non li censurava mai. Al massimo ti suggeriva di attenuare una forma, di cambiare qualche aggettivo. Scrittore forbito, ti proponeva sei o sette sinonimi. Ma non si permetteva di cancellare nulla». La tv di allora era più libera? «Sicuramente era più pedagogica» ricorda Minà. «I testi dovevano essere comprensibili anche per chi aveva la quinta elementare. Sarebbe stata una prepotenza fare altrimenti».
Le storiche interviste a Fidel Castro, a Muhammad Alì, al subcomandante Marcos. I documentari e le collaborazioni con i principali quotidiani italiani. Ma la carriera di Gianni Minà è legata anche al varietà televisivo. Per anni è stato autore e conduttore di Blitz, la trasmissione cult che per stagioni ha occupato la domenica pomeriggio di Rai Due. «Andavamo avanti per cinque ore. In tre anni, ci sono stati oltre 1500 ospiti in studio, di cui 500 stranieri». Anche questa è la storia della tv pubblica. «Ricordo una puntata con Roberto Benigni, Massimo Troisi e Carmelo Bene o anche la puntata dove accompagno Strehler e tutti i suoi interpreti nel racconto di cosa è stato il Piccolo Teatro di Milano. Per questo mi è dispiaciuto che in Rai non hanno trovato le risorse per continuare a rieditare e salvare una ventina di puntate di Blitz, come ho fatto l’anno scorso con La stagione dei Blitz. Erano immagini e scoop che facevano onore alla storia dell’azienda e della sua funzione».
Da quella trasmissione sono passati anche Federico Fellini, Gabriel Garcìa Marquez, Robert De Niro, John Travolta, Monica Vitti, Eduardo De Filippo… «Una volta – ricorda orgoglioso – abbiamo fatto una puntata sulla musica brasiliana con Vinicius de Moraes, Antonio Carlos Jobim, Toquiño, Joao Gilberto». I creatori della samba e della bossa nova in diretta su Rai Due. «E la gente li seguiva quei programmi – ricorda soddisfatto Minà – E aumentava le sue conoscenze».
Poi è arrivata l’epurazione. «Per oltre dieci anni ho smesso di lavorare in Rai». Se deve tornare con la mente a quell’esperienza, oggi Minà ricorre alla filosofia. «Va bene così, ho impiegato il tempo a disposizione per fare altro». Un impegno dedicato soprattutto all’America Latina, terra che ha finito per caratterizzare la sua carriera di giornalista. «Ho partecipato alla produzione de I diari della motocicletta, il film sul viaggio giovanile di Che Guevara attraverso l’America Latina, prodotto da Robert Redford. Ho messo in contatto la produzione con la famiglia Guevara. Soprattutto, in quel periodo ho montato cinque documentari che avevo girato a Cuba (Cuban Memories, ndr) e che mi hanno permesso, nel 2007 di vincere un premio alla carriera al festival di Berlino». Il più prestigioso riconoscimento per documentaristi.
Nonostante tutto, l’allontanamento dalla Rai resta però un passaggio amaro. «Ammetto che se non mi fossi dedicato a questi impegni sarei rimasto prigioniero del malumore. Quando mi hanno fatto fuori nessuno mi ha avvertito. Improvvisamente è come se fossi sparito. Quando proponevo qualcosa mi dicevano che non c’era più budget a disposizione o che era cambiata la linea editoriale della rete…». Il paradosso. Alcuni anni fa Gianni Minà raccoglie una lunga intervista con Hugo Chavez, il rivoluzionario presidente del Venezuela recentemente scomparso. Comunque la si pensi, una figura centrale nella storia politica contemporanea. Ma in Italia nessuno la trasmette. «L’ho proposta alla Rai e a Sky, ma non ho avuto successo. Vuole sapere che idea mi sono fatto? Secondo me in quell’intervista Chavez lasciava un’impressione troppo positiva. Dava fastidio».
Ma perché l’epurazione? Il motivo del suo allontanamento dalla televisione pubblica risale a metà anni Novanta. La responsabilità è di alcune puntate di Storie, un programma che Gianni Minà conduce verso mezzanotte su Rai Due. «A distanza di qualche anno – racconta – ho saputo che erano arrivate delle lamentele». Il giornalista ricorda almeno tre casi. C’è la serata in cui ricostruisce assieme a Nino Caponnetto, il fondatore del pool antimafia, le vicende dei magistrati Falcone e Borsellino e di chi li tradì. «A un certo punto, Caponetto si commosse – ricorda Minà oggi – ma io feci in modo che la telecamera non indugiasse sul suo viso. Per me la televisione non è mai stata sensazionalismo». Poi c’è la puntata in cui, con lo scrittore Luis Sepulveda, parla del colpo di Stato in Cile. «Lucho è un combattente vero, sua moglie era stata torturata. Così diceva cose molto forti contro la dittatura di Pinochet, che qualcuno mi chiese di tagliare. Ovviamente rifiutai». Ma soprattutto, Gianni Minà ricorda una puntata sull’assassinio di Ilaria Alpi, la giornalista italiana uccisa in Somalia assieme all’operatore Miran Hrovatin. «Guardando alcuni filmati, in trasmissione la madre di Ilaria, all’arrivo a Ciampino, si era accorta che i bagagli della figlia, spediti dalla Somalia assieme alla salma e sigillati con corda e ceralacca, erano stati aperti durante il viaggio. Su quell’aereo c’erano alcuni ufficiali del corpo di spedizione italiano in Somalia, i servizi segreti, persino un funzionario della Rai Tv». Nonostante le pressioni, Minà manda tutto in onda. «Qualcuno mi chiese di tagliare quello spezzone. Non l’ho fatto».