Davanti al Congresso di Washington il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha parafrasato Hemingway (“l’accordo con l’Iran non è un addio alle armi, ma un addio al controllo delle armi”), rovesciato un ragionamento diffuso (“il nemico del mio nemico è ancora il mio nemico, quando si parla di Iran e di Stato Islamico”), attinto alla dichiarazione d’indipendenza americana per spiegare il pericolo che stiamo vivendo (“il documento fondante degli Stati Uniti promette vita, libertà e ricerca della felicità, l’Iran promette morte, tirannia e ricerca del jihad”). Il concetto è chiaro: l’intesa sul nucleare che Washington e Teheran stanno negoziando, e che sembra sempre più vicina, è una pessima intesa. Le sanzioni verranno progressivamente smantellate, ma il cammino che separa gli ayatollah dalla bomba resterà percorribile in tempi brevi. Conseguenza: meglio nessun accordo di un pessimo accordo. Sabotare l’intesa, perché quello che per la comunità internazionale è un problema di “sicurezza”, per Israele è una questione di “sopravvivenza”.
Netanyahu al Congresso Usa: “Il nemico del mio nemico è ancora il mio nemico, quando si parla di Iran e di Stato Islamico”
«Netanyahu aveva di fronte i congressisti americani, ma in realtà si rivolgeva a un’altra platea, l’opinione pubblica israeliana, in vista delle elezioni del 17 marzo», racconta a Linkiesta Alex Vatanka, iranologo del Middle East Institute. «È sbagliato pensare che la questione dell’atomo iraniano non sia materia elettorale in Israele. I due fronti, quello del Likud e quello a guida laburista, sono testa a testa, per cui il premier, con il suo intervento, ha voluto raggiungere un paio di obiettivi. Da una parte, fare il pieno di voti a destra, dall’altra convincere gli indecisi. Quello relativo all’Iran è un argomento diffuso, attorno al quale poter impostare una campagna al tempo stesso semplice e muscolare».
Vatanka: «Non credo che gli Usa firmeranno mai un’intesa che risulti pericolosa nel breve termine. Ci sarà un accordo che blocchi il nucleare per 10 anni»
D’accordo, ma l’impressione è che si sia discusso molto del perché Netanyahu abbia fatto una simile mossa – e del perché i repubblicani l’abbiano invitato – e poco dei contenuti. L’allarme del premier israeliano è realistico? È vero che la distanza tra l’Iran e la bomba sarebbe molto breve? Citando l’esempio della Corea del Nord, che negoziò un accordo con la comunità internazionale, ma poi riprese a costruire l’atomica, Netanyhau ha detto che il cosiddetto break-out time di Teheran è di “circa un anno”. L’iranologo dissente: «Non credo che gli Stati Uniti firmeranno mai un’intesa che possa risultare pericolosa nel breve termine. Non ci sono segnali che Obama possa concedere a Teheran un percorso rapido in direzione della bomba. Al limite, ci sarà un accordo, come ipotizzato dal presidente, a tempo, che blocchi il nucleare per dieci anni. In questo periodo l’Iran sarà monitorato costantemente e in maniera massiccia».
Quale sarebbe il piano B di Netanyahu? Vatanka scuote la testa: «È proprio questo il problema. Lui non ha un piano B. L’unica alternativa è la guerra»
Altro punto che non è chiaro. Se l’intesa che si va negoziando è pessima, quale sarebbe il piano B di Netanyahu? Vatanka scuote la testa: «È proprio questo il problema. Lui non ha un piano B. L’unica alternativa è la guerra, è il bombardamento dei siti nucleari. E credo che siano veramente pochi, allo stato attuale, quelli che vogliono vedere una simile prospettiva trasformarsi in realtà».
A Teheran il discorso di Bibi è stato utilizzato strumentalmente dai due fronti, i “falchi” e i “moderati”. ”La reazione iraniana”, spiega l’analista, «è stata un misto di indignazione e di indifferenza, e ciascuna fazione ha sfruttato il discorso di Washington per rafforzare la propria posizione. Per gli hardliner, Stati Uniti ed Israele stanno recitando una parte, poliziotto buono e poliziotto cattivo. Per i sostenitori di Rohani, invece, lo show di Netanyahu è la prova del suo isolamento, e della bontà del passo di Obama».
Sarebbe più saggio lavorare ad un accordo più ampio, imponendo all’Iran di rinunciare a sostenere il terrore
Difficile, d’altra parte, dare torto al premier israeliano su un punto. Se è probabilmente un’iperbole sostenere che Teheran «oggi domina quattro capitali arabe, Baghdad, Beirut, Sana’a e Damasco», è vero che l’Iran rappresenta un fattore di instabilità regionale, sia per il suo sostegno al macellaio siriano Bashar al Assad, sia per l’appoggio a movimenti terroristi come Hamas e Hezbollah. Sarebbe più saggio, forse, lavorare ad un accordo più ampio, imponendo all’Iran di rinunciare a sostenere il terrore. Vatanka concorda: «Certamente. Ma gli ayatollah non vogliono parlare esplicitamente di questa ipotesi, di un grande accordo con gli americani. La speranza è che un’intesa sul nucleare possa rendere l’Iran un partner più responsabile, in modo che Teheran possa giocare un ruolo costruttivo e ripensare la natura delle proprie relazioni con Hamas e con Hezbollah».
A cercare di sabotare un accordo sulle centrifughe iraniane c’è anche l’Arabia Saudita
A cercare di sabotare un accordo sulle centrifughe iraniane, però, non c’è solo il premier del Likud. Molti analisti scrivono che è in azione un’altra lobby, ancora più potente, quella dell’Arabia Saudita, tant’è che John Kerry è appena volato a Riad per tranquillizzare l’alleato sulla natura dell’intesa con Teheran. «I Saud stanno spendendo un sacco di soldi per far saltare l’intesa sul nucleare iraniano», racconta Vatanka. «Eppure non credo che quest’opera di dissuasione possa dare i suoi frutti. L’Arabia, su questa materia, non ha un’influenza decisiva alla Casa Bianca. Anzi, il suo peso è addirittura inferiore a quello di Israele».