Una firma di tutto riposoBoom dei suicidi per motivi economici? Una grande bufala

Boom dei suicidi per motivi economici? Una grande bufala

Lo “studio” del sociologo Nicola Ferrigni della Link Campus University sull’andamento crescente dei suicidi per motivi economici negli ultimi tre anni ha basi scientifiche debolissime, ed è inaccettabilmente opaco a proposito della fonte dei dati utilizzati.

Molti di voi potrebbero avere letto o sentito parlare di questo “studio”, in quanto i media italiani gli hanno dato una copertura amplissima, senza purtroppo premurarsi di verificare la qualità dello stesso. Un esempio su tutti: persino durante la trasmissione “Porta a Porta” sui Rai 1 è stato menzionato tale “studio”, come rimarcato qui da Intercom, l’agenzia stampa che si occupa di Ferrigni e di Link Lab, il laboratorio da questi presieduto presso l’Università Telematica Link Campus.

Ritengo dunque che sul banco degli imputati di questo mio pezzo d’accusa debbano salire sia Nicola Ferrigni in quanto autore dello “studio”, sia i giornalisti italiani che non si sono minimamente preoccupati di esercitare un controllo preventivo su quanto hanno ammannito ai propri lettori e ascoltatori.

Intendiamoci: il tema dei suicidi – e, tra questi, dei suicidi in cui esiste una concausa economica come un fallimento o un licenziamento – merita il massimo rispetto e la massima comprensione. Sotto questo profilo le parole più giuste e più profonde le ha scritte e cantate Fabrizio de André in “Preghiera in Gennaio”, canzone dedicata al suo collega Luigi Tenco, morto suicida nel 1967.

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Tuttavia, lo “studio” di Ferrigni sui suicidi economici è ricco di elementi strani, che fanno propendere per un livello scarso di scientificità. Innanzitutto è interessante notare come il comunicato stampa sia uscito in contemporanea allo “studio”, dando grande enfasi al risultato. Nella fattispecie, l’attività di ricerca consiste nell’identificare mese per mese il numero dei suicidi che hanno una causa economica. Lo “studio” in sé è apparso in esclusiva sul sito Scenari Economici.

In nessun punto del lungo articolo viene specificato il modo in cui sono stati ricavati i dati mensili sul numero di suicidi per causa economica

A parte l’enfasi fortissima sul legame tra crisi economica e crescita nel numero di suicidi, in nessun punto del lungo articolo viene specificata la fonte dei dati, cioè il modo in cui sono stati ricavati i dati mensili sul numero di suicidi per causa economica: il testo rimanda al sito del laboratorio Link Lab, che tuttavia non riporta nulla di specifico. Si tratta di una mancanza gravissima dal punto di vista del rigore scientifico dello “studio”. Perché gravissima? Perché una base cruciale della ricerca scientifica consiste nel fornire il maggior numero di informazioni possibili, al fine di permettere ad altri ricercatori di giudicare con cognizione di cause le analisi fatte ed eventualmente di replicarle, cioè di verificare se lo stesso risultato viene ottenuto con lo stesso metodo di raccolta dati e di analisi.

È peraltro apprezzabile il fatto che il grafico pubblicato sul sito Scenari Economici mostri – per ognuno dei 36 mesi compreso nel periodo analizzato – il numero di suicidi per causa economica, per cui è facile inserire i dati in un foglio excel come ho fatto io qui, a vantaggio del lettore/ricercatore interessato. (Sempre per aiutare il lettore/ricercatore ho anche aggiunto per ogni mese il dato Istat sul tasso di disoccupazione).

Qui la fonte del grafico

Ferrigni si è basato sui suicidi riportati da giornali e telegiornali, e per ciascuno di essi ha fornito una classificazione della causa del suicidio stesso, escludendo per prudenza i casi dubbi

Se il pezzo su Scenari Economici non riporta la fonte, che fare? La prima ipotesi che viene in mente è che la fonte sia l’Istat. Ma non si tratta di Istat. Come ho potuto apprendere discutendo a lungo della questione su Twitter, Istat ha smesso di fornire i dati sui suicidi per causa economica nel 2010, giustificando la scelta con la difficoltà di attribuire una causa univoca a ciascuno dei casi. In quell’anno i suicidi per motivi economici erano arrivati a 187. A tenere per buoni i dati di Ferrigni, i suicidi economici nel 2012 sono stati 89, 149 nel 2013 e 201 nel 2014. Quindi si tratta di un numero comparabile agli ultimi anni del decennio scorso, anzi tali numeri sono inferiori per il 2012 e per il 2013. Appare inoltre piuttosto strano che Ferrigni non confronti i suoi numeri con quelli precedentemente pubblicati da Istat: forse perché l’autore avrebbe dovuto spiegare la ragione per cui il numero di suicidi nel 2012 è meno della metà rispetto al dato Istat del 2010, inficiando in larga parte la tesi di un’esplosione senza precedenti nel numero di suicidi economici.

In seguito alle discussioni su Twitter (ecco il potere di una piazza pubblica di discussione!) Ferrigni si è sentito in dovere di spiegare in un video (questo) l’origine dei dati stessi. Ed ecco finalmente la risposta: i dati hanno una fonte mediatica, cioè Ferrigni si è basato sui suicidi riportati da giornali e telegiornali, e per ciascuno di essi ha fornito una classificazione della causa del suicidio stesso, escludendo per prudenza i casi dubbi.

Quali sono i problemi inerenti a questo approccio? In primis non è assolutamente agevole identificare la causa di un suicidio, e bisogna piuttosto parlare di concause, cioè di fattori che congiuntamente stanno alla base di questo gesto.

Ammettiamo pure che Ferrigni abbia classificato i casi nella maniera più rigorosa possibile (attenzione: non basta menzionare il criterio in un video, perché il protocollo di classificazione deve essere accuratamente descritto nello studio stesso). Si tratta comunque di un’analisi che parte dai casi riportati dai mass media, quindi qualsiasi distorsione nella scelta da parte dei media di quali suicidi menzionare colpisce anche il sottogruppo di casi classificati da Ferrigni come suicidi economici. Se l’interesse è per l’andamento temporale del fenomeno nulla esclude che i mass media possano aver deciso di dare un’enfasi crescente nel tempo ai suicidi e in particolare a quelli economici, ad esempio con fini sensazionalistici o per accontentare i gusti di lettori e di ascoltatori. Se così fosse, l’andamento crescente dei casi sarebbe fittizio, in quanto catturerebbe l’attenzione crescente dei media, non il fenomeno sottostante.

D’altro canto, nulla esclude che possa essere accaduto il contrario, ovvero che i mass media – in presenza di un fenomeno in crescita esponenziale – abbiano deciso di censurare il tema in maniera crescente da un anno all’altro, con il fine di non allarmare i lettori, oppure perché le autorità hanno fatto pressione in questo senso.

Non si può dire con certezza se i dati raccolti da Ferrigni rappresentino il solo andamento nel tempo dei suicidi economici oppure anche il velo mediatico sovrastante

Dal punto di vista empirico la conclusione è chiara, anche se deludente per chi cerca una verità a tutti i costi: non si può dire con certezza se i dati raccolti da Ferrigni rappresentino il solo andamento nel tempo dei suicidi economici oppure anche il velo mediatico sovrastante, cioè l’andamento dell’attenzione mediatica al fenomeno stesso, oppure un mix tra i due aspetti. Come faccio a distinguere tra le due ipotesi? Impossibile farlo senza ulteriori informazioni che lo “studio” non fornisce.

Lo “studio” di Ferrigni è stato sbandierato a fini politici – su Twitter e altrove – al fine di mostrare gli effetti deleteri di una crisi economica che doveva essere gestita diversamente, ad esempio attraverso un’uscita pilotata dell’Italia dalla zona euro. Quindi ad alcuni è venuto il sospetto che lo “studio” stesso sia stato spinto mediaticamente con il fine di dare forza alla causa #noeuro di cui sopra. Dal punto di vista retorico ci troviamo nella situazione in cui una causa ritenuta valida dal suo proponente sia difesa da un pessimo avvocato, che finisce per essere controproducente: lo “studio” in questione può ritorcersi contro coloro che lo hanno sponsorizzato, nel momento in cui si dimostra l’impossibilità di trarre conclusioni sull’andamento vero dei suicidi economici (e a patto che sia sensato attribuire una sola causa ai singoli casi).

Non si può nemmeno escludere la distorsione opposta, cioè che lo “studio” sottostimi l’andamento esponenziale del fenomeno perché i media agiscono sempre più da pompiere. Ancora una volta un cattivo avvocato.

Attenzione dunque ai rischi della statistica-spettacolo, così come lamentato qui da Enrico Giovannini, allora presidente dell’ISTAT. Tra le altre cose Giovannini sottolinea la necessità che i giornali e le agenzie di stampa abbiano al loro interno uno statistics editor, cioè un membro della redazione che si occupi esplicitamente di effettuare una scrematura e un controllo preventivi sulle statistiche pubblicate, al fine di evitare la diffusione di paccottiglia pseudostatistica.

Sul punto bisogna essere netti. Una brutta statistica è come un virus che fa male a molti: ai lettori ingannati, ai giornalisti che sono ingannati ed ingannano, ai ricercatori che in buona o cattiva fede ingannano gli altri e se stessi, facendo fare un passo indietro al progresso della scienza e della conoscenza. Una brutta statistica rischia di provocare danni ancora maggiori nel caso dei suicidi, in quanto esiste un’ampia letteratura che mostra la presenza di effetti di imitazione conseguenti alla pubblicazione di pezzi sensazionalistici su episodi di suicidio. Non si tratta di una fantasia propagandistica: è la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che fornisce una serie di linee-guida ai giornalisti, tutte all’insegna della cautela. E del rispetto. 

@ricpuglisi

PS: ringrazio Joahnnes Buckler per il suo contributo essenziale a questo pezzo.

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