Da dove nasce la voce di un brand

Da dove nasce la voce di un brand

Facebook ha oltre un miliardo di utenti. Il social network cinese QZone ne ha 630 milioni. Instagram 300 milioni. Twitter 280. Tumblr 230. Pinterest 70 milioni. I social network sono le grandi nazioni del web, dove milioni di persone si incontrano tutti i giorni, parlano, discutono, si scambiano informazioni, link, video, immagini. In mezzo a tutta questa gente, però, si infilano anche altre entità: i brand. Piccoli e grandi marchi, dai detersivi ai biscotti, passando per le bibite e i fast food, che anche online cercano di fare pubblicità. Ma invece di creare giganteschi cartelloni che sponsorizzano i propri prodotti, sui social network, i brand si allontanano dal linguaggio distaccato della pubblicità tradizionale e cominciano a parlare come noi. Ancora di più, iniziano a parlare con noi. Per farlo, devono trovare una voce e un’identità. Diventare, in qualche modo, persone.

Paola Guarneri è una digital strategist di Social@Ogilvy, la divisione di Ogilvy & Mather (una delle agenzie di pubblicità più importanti del mondo, Network of the Year al festival della pubblicità di Cannes nel 2012, 2013 e 2014) che si occupa di strategie digitali con particolare attenzione per i social media, da Facebook a Twitter, da Pinterest a YouTube. Parte del suo lavoro è proprio quello di aiutare i brand a trovare una voce, arrivando nel modo giusto sui social network, parlando alla persone come persone. Le abbiamo chiesto di raccontarci come si fa.

Cosa fa un brand quando vuole andare sui social network?
I brand hanno la necessità definire la propria personalità: quell’insieme di obiettivi, tono di voce e atteggiamenti che utilizzeranno poi all’interno dei diversi canali social, un tono di voce. D’altronde ci troviamo in un luogo che, come dice il nome stesso, è un “media sociale”. Essere sociali vuol dire instaurare una relazione. E la relazione con una persona la instauri su dei valori condivisi.

Ma è qualcosa che tutti i brand possono fare? Un detersivo può avere un carattere? Avere dei valori? Non è una forzatura?
L’errore sta nel pensare al detersivo in modo neutro e distaccato, come qualcosa di esclusivamente pratico e senz’anima. Perché un detersivo si differenzi è necessario che abbia un carattere distintivo con cui gli utenti possano empatizzare. I detersivi non sono tutti uguali, hanno dei valori aggiunti a livello di formulazione, che spesso impattano in modo importante su tutto l’impianto di marketing e comunicazione con cui vengono raccontati al pubblico. Sono diversi nel modo in cui possono dare una mano alle casalinghe, ad esempio. E di conseguenza Dash non parla allo stesso modo di Dixan.

Uno dei clienti che seguo, ad esempio, è un brand di detersivi, con una gamma green di prodotti ecosostenibili e biodegradabili, con un posizionamento vicino al mondo delle mamme. Non può parlare in modo neutro e asettico, nel prodotto stesso c’è un impegno e un trasporto che bisogna andare a comunicare e a trasmettere. Lo trasmetti caratterizzando il brand con una specifica personalità.

Questa personalità nasce dall’essenza di quello che è il brand: quali sono i suoi valori, i suoi obiettivi e la promessa che vuole mantenere nei confronti degli utenti. Un nucleo che lo differenzia, che lo rende unico e che soprattutto consente di creare una relazione vera e genuina con le persone. Poi ovviamente essendo un carattere vero e proprio ha diverse sfaccettature che si mostrano a seconda delle circostanze e dei canali in cui il brand comunica.

Non c’è anche un lavoro fatto a partire dalle persone che il brand vuole raggiungere?
Be’, trattandosi di un dialogo e non di un monologo, così come non si può prescindere dall’avere “un carattere” ben definito, non si può prescindere dal prendere in considerazione anche gusti, necessità e comportamenti degli utenti a cui il brand si rivolge. Per capire queste cose abbiamo in mano strumenti diversi. Analisi di settore sia qualitative che quantitative. E poi il web e i social media ci consentono l’uso di un altro strumento che trovo meraviglioso: l’ascolto della rete. Esistono degli strumenti specifici che permettono di andare a vedere quanto e come le persone parlano online (su social media e blog) di un determinato brand o di argomenti più ampi come ad esempio intere categorie di prodotti ma anche argomenti più quotidiani.

Leggendo le conversazioni degli utenti possiamo intercettare tensioni culturali, bisogni pratici ma anche semplicemente capire quali sono rispetto a un tema gli argomenti che generano maggiore interesse. Da qui nascono gli spunti che un brand intelligente può sfruttare. Basta porsi una semplice domanda: io che sono questo tipo di brand, che cosa posso dire a queste persone che hanno questo tipo di interesse e queste necessità?

Questo non porta i brand a essere un po’ populisti? Penso a quelli che il lunedì scrivono «che noia è di nuovo lunedì» o «evviva è venerdì, arriva il weekend»?
Quella è la difficoltà dell’essere rilevanti. Alcuni brand pensano di dover utilizzare necessariamente alcuni canali per il semplice fatto che lo fanno tutti. O di doverci essere anche con i messaggi generici e senza carattere pur di esserci. Non a tutti i brand serve pubblicare un contenuto ogni 20 minuti. A volte basterebbe pubblicare solo due volte a settimana ma farlo con contenuti rilevanti.

Ogni brand deve avere sempre ben chiaro quale è il valore di scambio che offre ai suoi fan in cambio del loro tempo, del loro interesse e delle loro interazioni. L’obiettivo finale della comunicazione di un brand non è quello di portarsi a casa qualcuno che compri il loro prodotto una volta e basta, ma di trasformare i propri fan in veri e propri ambasciatori, che consiglino il prodotto alla propria cerchia di amici e conoscenti.

Per farlo i brand devono riconoscere il valore di ogni singolo utente e ripagarlo con contenuti divertenti, informativi e capaci di aggregare intorno a lui una vera e propria community con cui possa integrarsi e dialogare.

Ma c’è un legame diretto tra un utente che mette il “Mi piace” alla mia pagina a quello che lo compra?
Lavorando in modo coerente con la propria personalità di marca, gli interessi dei suoi utenti e il valore di scambio che può offrire, un brand va a costruire un rapporto vero e radicato. Teniamo l’esempio dei detersivi: magari al supermercato trovo dei detersivi che costano meno, ma sono disposto a pagare qualcosa di più quello che ho visto su Facebook perché ha dei valori che condivido. Sono disposta a investire quel qualcosa di più perché so che cosa sto comprando. Ovviamente se ho 200mila “Mi piace” non ho la certezza che tutti quei 200mila utenti comprino il mio prodotto ogni singola volta che vanno a fare la spesa. Posso aspettarmi è una frequenza di acquisto maggiore, certo, ma soprattutto ho uno zoccolo duro di persone che non solo acquistano ma addirittura consigliano il prodotto. E in un periodo come questo, di boom di rumore e comunicazione, gli utenti si fidano più del consiglio di altre persone che degli slogan pubblicitari.

Com’è l’aspetto umano del lavoro che fai? Chi sta dietro alla singola identità online di un brand?
È un lavoro di team, io sono una digtial strategist e mi occupo di pensare e di strutturare la presenza digitale dei brand: canali, messaggi da veicolare, modalità di contatto e così via… Una volta che questa identità è stata definita e benedetta dal cliente, subentra un’altra figura, un community manager che segue il brand giorno per giorno e traduce tutto lo studio strategico in commenti, post, immagini, video.

Poi la verità è che ci sono dei brand in cui, a seconda dei nostri interessi e gusti, ognuno di noi si riconosce di più. Dei brand che gestisce e cura più facilmente di altri. Nel momento in cui produco un contenuto o scrivo un commento, io non penso come Paola, ma penso come quel brand. Esco dalla persona che sono — ovviamente tenendomi stretto il mio buon senso e il know how maturato in anni di esperienza e nell’esperienza fatta su quel brand specifico — e dico: cosa farebbe il mio detersivo, che ha questa personalità, questi valori e questi obiettivi in questa situazione?

Sei un po’ un’attrice…
Sì, di fatto sì, sto mettendo la mia voce, le mie idee e quello che produco a servizio di un’altra identità.

È un lavoro estremamente interessante. Lo è il mondo della pubblicità in generale, ma la parte dedicata ai social media lo è in modo particolare, perché dovendo parlare in modo più dettagliato e su base quotidiana di diversi brand, scopriamo molte più cose. Nella mia carriera ho approfondito dall’inseminazione artificiale dei maiali all’alta gioielleria, dai detersivi al mondo dell’illuminazione. È essere un po’ tuttologi, aprendosi al mondo con molta consapevolezza.

Io sono stata abbastanza fortunata da lavorare sempre su prodotti che facevano quello che promettevano. Non so se è una cosa che capita a tutti ma nel momento in cui sono andata a parlare per determinati prodotti, l’ho fatto con la leggerezza di sapere che quello che dicevo era vero.

Ritengo che sui social network i brand abbiano la necessità di essere sinceri — che non vuol dire essere però naif. Ma nel momento in cui tu ti apri al dialogo su un social media, sai che la gente arriverà, commenterà e parlerà con te. Da questo punto di vista, quello che vai a dire e quello che vai a raccontare dei tuoi valori e dei tuoi prodotti deve essere inattaccabile altrimenti ti tornerà addosso come un boomerang. Un boomerang ben visibile a migliaia se non milioni di utenti.

Uno dei clienti che seguo è un brand di assicurazioni — una categoria di cui difficilmente si sente parlare bene — ma in realtà quando hai dei prodotti che funzionano e che danno delle garanzie, l’andare a dialogare in modo costante con le persone sui social network premia. Perché quando il brand si pone in modo diverso anche il cliente che arriva arrabbiato, vedendoti disponibile e aperto, sicuro di te, esperto, ma non arrogante cambia punto di vista. Non è più lì per scannarti, è lì perché ha un problema e lo potete risolvere insieme. E questa è una cosa che solo i social media ti possono dare.

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