C’è una scena, nel film Il Grande Lebowski dei fratelli Coen, che è diventata un ritornello quando si parla di scontri generazionali. È quella in cui il Drugo incontra il suo omonimo Lebowski nella sua villona. I due discutono, il Lebowski cazzone, impersonato da Jeff Bridges e dal suo accappatoio, è incazzato nero per il tappeto che gli è stato rubato e fa notare al suo omonimo in sedia a rotelle che non ci tiene proprio per niente a pagare per le cazzate che combina sua moglie. È a quel punto che parte la ramanzina:
La vostra rivoluzione è finita, signor Lebowski! Condoglianze! Gli sbandati hanno perso! Faccia come i suoi genitori, accetti il mio consiglio: si trovi un lavoro! Gli sbandati perderanno sempre! Mi ha sentito, Lebowski? Gli sbandati perderanno sempre!
Il Drugo non si scompone, lascia il suo omonimo in sedia a rotelle a sbraitare e se ne va con il suo accappatoio, i suoi occhiali da sole e, come forma di risarcimento, un bel tappeto.
Per un certo periodo, nella mia testa, questa mostra si è chiamata «Gli sbandati hanno vinto». «Hanno vinto», non «hanno perso»
A dispetto della lunga citazione, quello di cui parliamo oggi non è il capolavoro dei fratelli Coen, e nemmeno di tappeti persiani, ma una mostra che si intitola La Bellezza fa 40. I 40 migliori artisti italiani under 40, curata da Stefano Fiz Bottura e realizzata da Better Days al Castello Carlo V di Lecce, dal 21 aprile al 7 luglio. Eppure il grande Lebowski non è affatto casuale. È proprio Bottura, artista dal passato da writer, direttore di Rockit.it, che lo chiama in causa nella sua presentazione, proponendo però una piccola variante alla citazione, piccola, ma decisiva:
Per un certo periodo, nella mia testa, questa mostra si è chiamata «Gli sbandati hanno vinto». «Hanno vinto», non «hanno perso». Perché era esattamente il concetto che volevo comunicare forte e chiaro: un manipolo di artisti così disparati nelle tecniche, nelle tematiche e nei risultati dei proprio lavori, una banda di outsider o sbandati, appunto, nel senso più vivo e positivo possibile del termine, che in realtà stavano iniziando a spaccare sul serio, a vincere, raccogliendo successi e riconoscimenti (di critica, pubblico e fama) nelle situazioni più diverse (gallerie o muri istituzionali, agenzie di comunicazione o valanghe di apprezzamenti dai media e sui social).
Nelle sale del Castello di Lecce saranno esposte le opere di 40 artisti che con il Drugo hanno qualcosa in comune, ma non si parla né di White Russian, né di tappeti, né di accappatoi e ciabatte. Si parla di sincerità, di onestà, di spontaneità e di coraggio nel portare avanti una propria originale idea dell’arte anche senza l’approvazione e il plauso dell’establishment — dello Stabilimento — ovvero di quel sistema di gallerie e di collezionisti che determinano da sempre non tanto ciò che è arte e ciò che non lo è, quanto ciò che ha mercato, e ciò che non ce l’ha.
Arte sincera, di onesta, di spontanea, con il coraggio di portare avanti la propria originalità anche senza l’approvazione e il plauso dell’establishment
Ecco, questa mostra — che farà il giro d’Italia e che cambierà ogni tanto la sua line up, a dimostrazione che gli outsider italiani dell’arte sono ben più di 40 — è come il gesto del Drugo che se ne va con il tappeto, che non si oppone alla paternale di chi pretende di avere il mondo in mano, ma semplicemente lo ignora. Fuor di metafora cinematografica, questa mostra sembra quasi voler far spallucce di fronte alle manfrine che provengono dall’establishment, far spallucce per andare avanti e, semplicemente, fare arte, che è poi la cosa che più dovrebbe contare. Con la certezza che, alla fine, l’arte quando è vera si fa strada da sola, senza bisogno di obliteratori che ne decidano raffazzonate gerarchie di comodo.
«Gli sbandati sono le forze vitali, quelle che portano avanti il loro lavoro fregandosene dei diktat ufficiali»
«Gli sbandati sono le forze vitali, quelle che portano avanti il loro lavoro fregandosene dei diktat ufficiali», scrive ancora Bottura nella sua breve presentazione che apre il catalogo della mostra, e continua «ma trovando strade nuove, mondi ibridi, percorsi e motivazioni personali che poi, alla lunga, quando sinceri e originali, finiscono sempre per venire in un certo qual modo riconosciuti da tutti».
Fiz, c’è una caratteristica che accomuna questo tipo di artisti, oltre al profilo anagrafico?
Certo: il talento, la personalità, il percorso fuori dai “soliti giretti dell’arte”, la credibilità personale, l’amicizia, il segno grafico.
Qual è il percorso che deve fare un giovane artista italiano oggi per arrivare a esporre?
Di sicuro devono impegnarsi nel proprio lavoro, devono farlo ai massimi livelli e al meglio che possono, se non ancora di più. E poi in questo momento è molto utile avere una presenza forte sui social network, diffondere le proprie opere, farsi conoscere in modo che tutti possano vedere quanto sei bravo, galleristi compresi.
Perché questi artisti italiani, in Italia, fanno fatica ad emergere?
Eh eh, perché la vita è cattiva.
Perché alcuni di loro sono più richiesti all’estero che in Italia?
In realtà spesso si tratta di semplice casualità, e poi conta molto anche il fatto che i mercati all’estero sono semplicemente più grossi.
Esiste un tema “fuga delle matite”, ovvero giovani artisti di prim’ordine che vanno all’estero a lavorare perché in Italia non hanno spazio?
Non credo tanto a questa dinamica, credo sia molto più decisivo in queste cose il desiderio di viaggiare e scoprire realtà nuove, fare nuove esperienze che aiutino crescere a livello personale, ma anche professionale. E poi in verità non c’è una direzione a senso unico, non è per niente una fuga, ma un andare e tornare e poi riandare e poi ritornare e così via. È molto più circolare il flusso.
Che politiche mancano in Italia per valorizzare l’arte di questo tipo? Cosa si potrebbe fare?
Non lo so, non lo voglio sapere che differenza fa (cit.).