Due miliardi di anni fa, la Terra era un posto parecchio diverso. Quanto diverso, di preciso, è difficile dirlo. Il periodo della storia della Terra compreso tra la sua nascita – 4,5 miliardi di anni fa – e la comparsa delle prime forme di vita multicellulari, quattro miliardi di anni più tardi, occupa quasi nove decimi della linea del tempo del nostro pianeta. Tutto quello che sappiamo del cosiddetto Precambriano, pieno di stime, punti di domanda e incertezze nell’ordine delle centinaia di milioni di anni, è stato scoperto negli ultimi cinquant’anni.
Due miliardi di anni fa, la vita esisteva da quasi altrettanto tempo, nella forma di microscopici batteri unicellulari. All’inizio si nutrivano di sostanze chimiche, ma quando queste cominciarono a scarseggiare alcuni riuscirono ad adattarsi all’uso dell’energia del Sole, attraverso il processo della fotosintesi. I cianobatteri dei primi oceani cominciarono a produrre ossigeno, fino ad allora quasi assente dai cieli primordiali, formati per lo più da anidride carbonica.
Poco a poco, la percentuale di ossigeno intorno alla Terra crebbe fino a raggiungere il livello dell’uno per cento (oggi è poco sotto il 21 per cento), più o meno quando si situa la nostra storia. Era ancora molto poco per schermare con efficacia la potente radiazione solare, dannosa per la vita in superficie.
Dove fossero esattamente le terre emerse e quale fosse la loro forma, ad ogni modo, è poco chiaro. Il primo dei supercontinenti di cui si ha di solito qualche ricordo scolastico, la Pangea, si formò appena 300 milioni di anni fa. In precedenza, si ritiene che i blocchi continentali – emersi a poco a poco grazie all’attività vulcanica – si siano riuniti in un’unica massa e poi separati diverse volte, creando supercontinenti dai nomi affascinanti come Ur, Rodinia, Nuna – ma sulle cronologie e le definizioni i geologi sono molto in disaccordo.
Ad ogni modo, la Terra non era più quella plastica rappresentazione dell’inferno che era stata subito dopo la sua formazione, da un’insieme di gas e polveri ruotanti intorno al Sole. Gli oceani di lava si erano gradualmente raffreddati e il vapore acqueo era precipitato fino a formare un grande oceano globale. I vulcani attivi erano ancora moltissimi e la superficie terrestre, non schermata adeguatamente dall’atmosfera, era colpita molto di frequente da asteroidi.
Due salti in avanti
Da questo paesaggio ancora piuttosto apocalittico facciamo un bel salto in avanti: dalle nebbie inconoscibili della preistoria della Terra fino a un punto molto preciso nel tempo e nello spazio. Sono le 15.25 del 2 dicembre 1942 a Chicago, negli Stati Uniti. Sotto la tribuna ovest dello stadio di atletica dell’università cittadina, Stagg Field, in un campo da squash, un gruppo di scienziati sta ultimando un esperimento all’apparenza molto semplice.
Si tratta di impilare uno sopra l’altro strati formati da blocchi quadrati di grafite (dimensioni: 20 x 20 x 20 centimetri) alternati a uranio. Il lavoro andò avanti per giorni. Poi, alle 15.25 del gelido pomeriggio di Chicago, Enrico Fermi – lo scienziato premio Nobel che dirigeva l’esperimento – ordinò che venisse ritirata l’ultima barra di controllo.
Fu uno di quei momenti in cui si dovette sentire di fare la Storia. La prima pila atomica – il primo reattore costruito dall’uomo – fu un passaggio decisivo verso la costruzione della bomba atomica, poco meno di tre anni più tardi, e al tempo stesso l’atto di nascita della produzione di energia nucleare per scopi pacifici. Per la prima volta sulla Terra, sanno gli scienziati nello stadio di Chicago, l’energia dell’atomo è stata liberata ed è sotto controllo. Non avevano modo di saperlo allora, ma si sbagliavano.
Il 25 settembre 1972, gli scienziati francesi annunciano la scoperta di uno dei fenomeni naturali più strani e affascinanti della storia
Facciamo un altro salto in avanti. Nel giugno del 1972, all’impianto di arricchimento dell’uranio di Pierrelatte, nel sudest della Francia, alcuni scienziati nucleari stanno facendo analisi di routine su un campione proveniente da una miniera di uranio nel Gabon, in Africa occidentale. L’uranio è presente in natura in tre isotopi differenti, sempre nelle stesse percentuali: l’uranio-238 al 99,2744 per cento, l’uranio-235 allo 0,7202 per cento e l’uranio-234 allo 0,0054 per cento. Ma nel campione che hanno sotto gli occhi, l’uranio-235 è solo allo 0,6 per cento. Dov’è finito il resto? L’unica altra situazione in cui le percentuali sono così alterate è nelle barre di combustibile usate nelle centrali.
La Commissione per l’energia atomica francese (Cea) avvia un’indagine e di lì a poco, il 25 settembre 1972, annuncia la scoperta di uno dei fenomeni naturali più strani e affascinanti della storia. Nelle miniere di uranio di Oklo, vicino alla città di Franceville in Gabon, ci fu un tempo un reattore nucleare naturale, o meglio una serie di reattori, che per molto tempo sprigionarono energia fino a consumare l’uranio-235 fino ai livelli che trovarono gli scienziati francesi.
Questo annuncio faceva nascere negli esperti diversi interrogativi, anche se un evento simile era già stato previsto, a livello teorico, in un articolo scientifico degli anni Cinquanta. I reattori nucleari non funzionano con l’uranio che si trova oggi in natura, proprio perché il livello di uranio-235 è troppo basso. L’uranio-238 che ne compone la stragrande maggioranza, uno degli elementi più pesanti in natura, è solo leggermente instabile e non si divide molto facilmente.
Per creare il combustibile è necessario passare per un complesso processo industriale cosiddetto di “arricchimento”, in cui la percentuale dell’isotopo 235, molto più radioattivo, è aumentata fino ad oltre il 3,5 per cento.
Com’era possibile allora che in Gabon si fosse creata una concentrazione di uranio-235 alta a sufficienza? La soluzione è semplice e affascinante: il passare del tempo. Gli atomi radioattivi sono instabili e, senza che il momento esatto possa essere previsto, perdono massa fino a quando non si trasformano in un isotopo stabile.
Le attuali percentuali dei diversi isotopi dell’uranio dipendono dai loro diversi tempi di dimezzamento, la misura principale con cui viene descritto il processo: per l’uranio-238 questo è di 4,5 miliardi di anni – il motivo per cui l’uranio naturale è solo debolmente radioattivo – per l’uranio-234 è di soli 247 mila anni e per l’uranio-235, quello che attirò l’attenzione degli scienziati francesi, è di 710 milioni di anni.
Dunque, due miliardi di anni fa le percentuali dovevano essere molto differenti da quelle attuali e l’isotopo 235 dell’uranio era più o meno il 4 per cento del totale, più che sufficiente per fare da combustibile in una centrale moderna.
Un reattore perfetto
Ma questo non spiega ancora tutto del fenomeno di Oklo. Quando un neutrone colpisce un atomo di uranio-235, quest’ultimo si rompe in due nuclei più piccoli e libera parecchi altri neutroni, che possono andare a colpire altri atomi e creare una cosiddetta reazione a catena.
Di solito, però, i neutroni scappano a una velocità molto elevata e hanno poca possibilità di colpire altri nuclei di uranio. Per questo, nei reattori moderni viene utilizzato un “moderatore” per rallentare i neutroni in fuga e rendere possibile e continua la reazione a catena.
Che cosa moderava gli atomi nelle miniere di Oklo? Anche questa risposta è straordinariamente semplice: l’acqua. Come spiega il blog di Physics arXiv, gli scienziati sono più o meno d’accordo sul fatto che i reattori di Oklo funzionavano a intervalli piuttosto regolari. L’acqua degli oceani o delle piogge primordiali scorreva sulle rocce ricche di uranio, faceva da moderatore e avviava una reazione nucleare a catena.
Secondo le stime, la reazione funzionava per una trentina di minuti, poi si fermava per due ore e mezza
La temperatura delle rocce si scaldava fino a 300 gradi centigradi, trasformando l’acqua in vapore e producendo un fenomeno simile a un geyser. Il reattore naturale era di nuovo a secco fino a quando la temperatura non tornava abbastanza bassa da permettere lo scorrere dell’acqua.
Secondo le stime, la reazione funzionava per una trentina di minuti, poi si fermava per due ore e mezza. Gli scienziati individuarono nelle rocce del Gabon i resti di almeno diciassette reattori in un’area di decine di chilometri quadrati, alcuni in superficie, altri fino a 400 metri di profondità, con tanto di tracce degli elementi prodotti di solito in una centrale moderna – come zirconio, ittrio, cerio e neodimio – in quantità altissime rispetto a qualsiasi altro luogo della Terra.
Il processo dovette essere andato avanti per circa 300 mila anni, consumando l’uranio-235. Un tempo minimo nelle sterminate ere della Terra primordiale, ma quasi venti volte più della somma di tutti gli anni in cui sono stati operativi i singoli reattori nucleari mai costruiti dall’uomo.
Durante la loro attività, ad ogni modo, il totale dell’energia prodotta è stato con ogni probabilità molto basso, 15 mila megawatt l’anno, con una potenza media di meno di 100 kw/ora: come ha riassunto uno degli scienziati che ha studiato il fenomeno, sufficiente al massimo per far funzionare qualche decina di tostapane.
Che cosa ci insegna Oklo
Ma i reattori naturali di Oklo non sono solo una curiosità.
Una delle sfide più grandi dell’industria nucleare civile è trovare un modo sicuro di disporre delle scorie radioattive, che restano pericolosi per la salute umana per milioni di anni a venire (ricordate i tempi di dimezzamento dell’uranio-235?). Una delle soluzioni proposte è quella di concentrare le scorie in grandi depositi sotterranei, scelti con cura in territori con le giuste caratteristiche geologiche e sismiche.
È uno dei pochi casi in cui l’uomo è costretto a pensare a che cosa sarà di quello specifico luogo di qui a centinaia di migliaia e milioni di anni: Oklo è un luogo unico sulla Terra per misurare che cosa succede agli isotopi radioattivi nell’ambiente dopo un lasso di tempo lunghissimo, perché dopo essere stato un reattore naturale è stato un deposito di scorie altrettanto naturale.
Gli studi hanno mostrato che, nonostante siano passati due miliardi di anni, i materiali sono rimasti per lo più al loro posto. Ancora più interessante, alcuni gas radioattivi che vengono attualmente rilasciati nell’atmosfera dalle centrali nucleari (come lo xeno-135 e il kripton-85) sono stati catturati naturalmente e con grande efficacia in minerali di fosfato di alluminio, dove possono ancora essere rilevati a distanza di due miliardi di anni. Uno scienziato ha detto al Physics arXiv che, visto quanto osservato a Oklo, «non sembra irrealistico sperare che possa aver successo lo smaltimento a lungo termine in depositi geologici specialmente selezionati e costruiti».
La storia di Oklo, ad ogni modo, non finisce bene. Le miniere di uranio della zona sono state sfruttate intensamente – oggi sono chiuse – e tutto il minerale recuperabile è stato estratto, incluso quello delle zone dei reattori naturali. Ne resta solo uno, a una trentina di chilometri da Oklo, molto esposto all’erosione dell’acqua.
Per questo motivo, tutti i dati su Oklo che vengono ancora oggi utilizzati dagli scienziati per cercare di capire di più sul fenomeno – che potrebbe avere risvolti importanti anche al di fuori della fisica dei reattori e dello smaltimento delle scorie – risalgono al periodo di grande interesse per Oklo nei primi anni Settanta.
Anche se le condizioni di Oklo potrebbero essersi verificate altrove sulla Terra di due miliardi di anni fa, finora non si sono trovate tracce di altri reattori naturali. La storia di Oklo rimane un messaggio unico, da un passato che non riusciremo mai a figurarci con precisione, della capacità della Natura di sorprenderci – e anticiparci – anche nelle nostre imprese più ambiziose.