Il tanto atteso, o temuto, accordo sul nucleare iraniano alla fine è arrivato. Lo hanno annunciato da Losanna, Svizzera, in una conferenza stampa convocata all’improvviso, il ministro degli esteri della Repubblica Islamica Javad Zarif e l’Alto rappresentante dell’Unione europea Federica Mogherini. Soddisfatti, con diverse sfumature, i rappresentanti del 5+1 (gli Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania). Il “Grande Satana” (copyright Khomeini) e lo Stato capofila del “Asse del Male” (copyright George W. Bush) alla fine hanno trovato un’intesa sui punti ancora controversi.
L’Iran, tra le altre cose, accetta di sospendere i due terzi della sua capacità di arricchire uranio, di concentrare nel solo impianto di Natanz i processi di arricchimento e di riconvertire la centrale di Fordow – collocata all’interno di una montagna e quindi al riparo da eventuali attacchi aerei – in una struttura per la ricerca, senza materiale fissile all’interno.
Il rispetto di questi impegni sarà monitorato con controlli stringenti da parte dell’Aiea (l’agenzia dell’Onu per il nucleare). Qualora l’accordo – che dovrebbe durare 10 anni, ma già si prevedono fasi successive a 15, 20 e 25 anni «volte a costruire una fiducia assente in precedenza” – dovesse essere violato le sanzioni internazionali contro l’Iran, che saranno revocate nel momento in cui l’Aiea verificherà il rispetto degli impegni, verrebbero immediatamente ripristinate. I dettagli saranno comunque spiegati nel documento tecnico dell’accordo, che dovrà arrivare entro fine giugno.
Al di là dei tecnicismi, è evidente la portata storica di questo accordo. L’Iran esce dall’isolamento internazionale a livello politico-diplomatico ed economico. Nel futuro le risorse di uno dei Paesi più ricchi di petrolio e gas naturale del pianeta verranno immesse nel mercato, il tutto a discapito di chi – Paesi Arabi del Golfo, ma anche la Russia – finora aveva beneficiato delle sanzioni a Teheran. Ma non è solo questo il motivo di risentimento da parte dei contrari all’intesa.
I Sauditi devono prendere atto che il loro rivale regionale – con cui sono in una fase di competizione e violentissimo scontro, e che stava già segnando delle vittorie sul campo in Iraq, Siria e Yemen – nel futuro avrà ancora più risorse a disposizione. Israele, che con Netanyahu al governo ha sempre considerato l’Iran la minaccia più grave alla propria sicurezza, subisce la lama a doppio taglio del gelo dei rapporti con Washington: le fortissime pressioni sul Congresso non sono servite, per ora, a fermare il negoziato.
«Si tratta già ora di un accordo storico, perché mai in tanti anni di tentativi si era arrivati a questo punto», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Poi ovviamente bisognerà vedere se tutto va a buon fine, se non sorgeranno problemi da qui a fine giugno sul documento tecnico, se il Congresso americano non si metterà di traverso e via dicendo. Intanto però si può dire che, in base a quanto stabilito ad oggi, l’Occidente ha sicuramente guadagnato tempo. Il breakout time – cioè il tempo necessario a Teheran per ottenere un ordigno atomico – in caso di rottura dell’accordo sarebbe di circa un anno. L’Iran, di contro, si trova ora di fronte a una scelta strategica importante: come utilizzare le risorse che verranno sbloccate con la fine delle sanzioni. Potrà impiegarle soprattutto per migliorare la situazione economica della popolazione, oppure – ed è il timore dei contrari all’intesa – potrà aumentare le proprie azioni anti-israeliane (ad esempio aumentando i finanziamenti all’Hezbollah libanese) e anti-saudite. Si tratta di una vera e propria scommessa, comunque. Sia i favorevoli che i contrari hanno le loro ragioni».
Tra i contrari spicca l’Arabia Saudita, ma sono tanti i Paesi della regione preoccupati per quanto sta accadendo e ancor più per quanto potrebbe accadere. «La linea strategica americana sembrerebbe quella di voler far diventare l’Iran un bastione contrastante l’asse sunnita, o meglio le “convulsioni” dell’asse sunnita, di cui l’Isis è solo la punta dell’iceberg», spiega ancora Neri.
Sarebbero dunque tutti gli Stati sunniti o quasi a potersi sentire minacciati dai cambiamenti in corso: Egitto, Giordania, monarchie del Golfo, la stessa Turchia. «La scelta degli Usa di cercare nella regione una sorta di balance of power tra schieramenti non è irragionevole, il problema è che nel breve/medio periodo rischia di peggiorare la situazione. Servirà molta cautela da questo punto in poi per gestire l’emersione dell’Iran come potenza regionale. Se ci fossero degli accordi segreti tra Washington e Teheran – siamo nel campo delle ipotesi – ad esempio sulla questione del Califfato, della Siria e dell’Iraq, sarebbe meglio. Ma finora – conclude Neri – le diplomazie occidentali non mi sembra abbiano brillato per lungimiranza strategica».
Per l’Iran, l’accordo ha anche una portata sul fronte interno. La linea morbida impressa dal nuovo presidente Rohani dimostra con questa intesa di dare i propri frutti e, considerato che in Iran nulla accade senza che l’Ayatollah Khamenei dia il proprio consenso, è facile ipotizzare un tentativo dell’establishment di puntellare la teocrazia in un momento di instabilità crescente.
Le giovani generazioni, stragrande maggioranza del Paese, sembrano sempre più insofferenti verso la Repubblica Islamica e un sollievo delle loro condizioni economiche potrebbe allungare la vita al regime. Tuttavia, è l’opinione di alcuni analisti iraniani, il crollo della teocrazia nel medio periodo è probabile e, anzi, una maggiore apertura verso l’Occidente potrebbe accelerarlo.