Nel 1992, in uno dei testi che compongono il Secondo diario minimo, il professore e grande bibliofilo alessandrino Umberto Eco teorizza e pone le basi di una disciplina dal nome bislacco. Si chiama Cacopedia, dall’unione del greco κακός (kakos), cattivo, e παιδεία (paideia), educazione, ed è «la pratica di quelle soluzioni che, se uno non si affretta a immaginarle per malvagità e malizia, saranno ben presto immaginate da qualcuno, e sul serio e senza malizia».
La Cacopedia, con tutto il suo carico di surrealismo e di nonsense, acquisisce senso all’interno della scienza di tutte le scienze, ovvero della ’patafisica — la scienza delle soluzioni immaginarie, come la definiva il suo fondatore, Alfred Jarry, alla fine dell’Ottocento — e se non è troppo importante per quello che studia ed elenca, visto che potenzialmente è tutto e il contrario di tutto, è decisiva per la sua semplice esistenza, e lo è, paradossalmente, in modo negativo.
Un’applicazione della Cacopedia è la descrizione preventiva delle peggiori catastrofi sociali, dei totalitarismi
Di questa fantomatica disciplina scientifica, nei piani di Eco, fanno parte tutta una serie di pacifiche idiozie ed inermi esercizi intellettuali circoscrivibili nell’ambito del divertissement — come l’ideazione del Progetto per una Facoltà di Irrilevanza Comparata, divisa nei quattro Dipartimenti di Ossimorica, Adynata (o impossibilia), Bizantinica e Tetrapiloctomia. Ma come sicuramente non ignora il professore alessandrino, la scienza ’patafisica, insieme a qualsiasi sua branca, per definizione sfugge di mano al proprio inventore, come una specie di Frankenstein. E la Cacopedia, stando alla sua definizione, implica anche un’altra applicazione, meno pacifica e meno inerme di quella pensata da Eco: la descrizione preventiva delle peggiori catastrofi sociali, dei totalitarismi, che rende questa strana e bislacca disciplina inventata una sorta di declinazione della fantascienza distopica con rilevanza sulla realtà. Rendendola, proprio per questo, molto interessante.
L’esempio più celebre che i cacopedici fanno, quello da cui partono per giustificare l’esistenza e la legittimità del loro lavoro, è infatti proprio una distopia: se qualcuno, alla fine dell’Ottocento, avesse previsto l’avvento del Nazismo e addirittura la Shoah e, nell’ambito di un’operazione cacopedica, l’avesse descritto minuziosamente in un’opera d’arte, la Shoah sarebbe stata evitata. Lo stesso principio, per i cacopedici, si può applicare a qualsiasi cosa, a qualsiasi dramma umano.
Seppur la Cacopedia sia fondamentalmente uno scherzo, una boutade di Eco che inizia e finisce (quasi) all’interno del Secondo diario minimo, nella sua non esistenza porta in seno un paradosso stimolante: da quando esiste la Cacopedia, le invenzioni che prima facevano parte della fantascienza sotto la categoria delle distopie, e che non si realizzavano mai, ora, al contrario di quanto avrebbe voluto Eco, si realizzano.
La fine delle distopie è dovuta alla coincidenza di due fatti: la fine delle ideologie e la rivoluzione digitale.
La coincidenza tra questa discontinuità dell’esercizio intellettuale della distopia e la ideazione della Cacopedia è senza dubbio casuale e non ci importa. Quel che ci importa — e che non è affatto casuale — è invece la contemporaneità di tre eventi, grosso modo avvenuti nel giro di una decina d’anni, tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta. Il primo, l’insorgere di quella discontinuità nella narrativa distopica;il secondo, la fine storica delle ideologie e, di conseguenza delle utopie; e il terzo, quello decisivo, la rivoluzione tecnologica digitale.
Negli anni Novanta le peggiori fantasie dell’uomo divennero, per la prima volta nella storia, non solo possibili, ma probabili.
Fu in quel momento, mentre il movimento fantascientifico veniva arricchito dal filone cyberpunk, mentre la guerra fredda finiva e si portava nell’oblio la stagione delle ideologie, mentre Umberto Eco pensava che i suoi divertissement fossero inermi e pacifici scherzi intellettuali, mentre nelle case occidentali iniziavano a sentirsi le prime avvisaglie di Internet – nella forma di gracchi sgraziati e lucine di modem arcaici – le peggiori fantasie che l’uomo poteva immaginare irrompevano nella realtà, diventando per la prima volta nella storia, non solo possibili, ma probabili.
Pensiamo per esempio alle distopie della prima parte del Novecento: da 1984 di George Orwell, a Brave New World di Aldous Huxley, da Il tallone di ferro di Jack London a Fahreneit 451 di Ray Bradbury. Il carattere distopico di ognuna di loro si misura nella loro capacità di inventare un mondo molto simile a quello in cui vivevano, situarlo nel tempo a poca distanza dalla propria contemporaneità e inventarsi il modo di esacerbare e inasprire il controllo del potere sugli individui attraverso una tecnologia di cui ancora non c’era traccia. È quest’ultimo dettaglio il tassello decisivo che ha reso quelle opere e quelle fantasie immortali: perché sono, per l’appunto, pura fantasia.
Prendiamo delle opere simili, scritte però ben al di qua di quella sottile linea rossa che, tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, ha sancito la discontinuità all’interno della fantascienza distopica. Prendiamone tre.
La prima è un romanzo intitolato Super Sad True Love Story (2010) dell’americano Gary Shteyngart, in cui si immagina l’invenzione di un aggeggio chiamato äppärät , una sorta di iPhone che può diffondere live i pensieri della gente, in un immenso social network che calcola in tempo reale i tassi di popolarità.
La seconda è The Entire History Of You (Ricordi pericolosi, 2011), ovvero il terzo episodio della prima stagione della serie televisiva britannica Black Mirror, in cui la vita dei protagonisti è distrutta da un congegno sottopelle che registra ogni loro ricordo e che permette di ripercorrere in ogni momento la propria vita.
La terza è The Circle (Il Cerchio, Mondadori, 2014), l’ultimo romanzo di Dave Eggers, in cui l’autore americano si immagina una fantomatica azienda multinazionale monopolista che rende realtà lo spauracchio della trasparenza totale, eliminando completamente il concetto di privacy attraverso l’installazione di una telecamera che filma e trasmette in live streaming tutto.
Sono tre opere interessanti, non tutte riuscite al meglio — una piccola perla l’episodio di Black Mirror, intelligente il romanzo di Shteyngart, noioso e scontato il romanzo di Eggers — ma che testimoniano indirettamente la fine di un certo modo di immaginare distopie, ormai raggiunte dalla realtà, o quanto meno dalla possibilità della realtà.
Siamo alla fine di un certo modo di immaginare distopie, ormai raggiunte dalla realtà, o quanto meno dalla possibilità della realtà.
Perché è vero che mentre Shteyngart scriveva il suo romanzo l’iPhone era ancora simile a un telefono; come è vero che mentre giravano Black Mirror e mentre Dave Eggers scriveva il suo The Circle, le voci sul lancio di applicazioni come Periscope o Meerkat erano ancora fantasia. Ma è altrettanto vero che, ormai, queste cose ce le abbiamo in tasca, nei nostri smartphone, e che forse sono altre le strade che la fantascienza distopica deve prendere per poter ancora inocularci quel sentimento di terrificante plausibilità e, nel contempo, di scarto dalla realtà. Forse è tempo di tornare a leggere Aldous Huxley.