A quanto risulta dalle fonti storiche, i primi esperimenti con le trasfusioni avvennero nel XVII secolo, in Inghilterra. Non è una cosa per teneri di cuore: venivano usati cani come cavie, e il passaggio del sangue avveniva, da un esemplare a un altro, in modo brutale. Si aprivano le vene di uno dei due soggetti e si faceva scorrere il sangue nelle vene di un altro, attraverso dei condotti fatti di piume. La procedura comportava, di necessità, la morte del cane donatore e spesso anche quella del cane che riceveva il sangue.
Queste erano quisquilie, all’epoca. I dubbi riguardavano ben altro: il cane che ha ricevuto il sangue, ha mostrato cambiamenti psicologici? Il sangue di una razza cambia la razza del cane che lo riceve? Ne mofidica il carattere? Riconosce il padrone? Trasferisce anche le cose che ha imparato? E soprattutto – e qui si capisce dove volevano andare a parare – ci si chiedeva se il sangue di un cane coraggioso potesse rendere temerario anche un cane fifone.
Fiuto da allevatore, senza dubbio. Ma anche interesse alchemico. Gli scienziati della Royal Society di Londra, che operavano sulle trasfusioni dei cani agivano in un contesto para-scientifico dominato dalla ricerca della pietra filosofale – e sperimentavano nuove strade per le trasformazioni alchemiche: non solo quelle degli oggetti, ma anche quelle degli esseri viventi. Che poteri poteva trasportare il sangue? Cosa lo rendeva il fluido della vita? Che componenti aveva?
Per capire meglio come funzionava, era necessario passare allo step successivo: gli uomini. Il problema era che, come capitava per i cani, il donatore faceva una brutta fine. Anche se all’epoca erano altri tempi, e la vita umana valeva quello che valeva, non potevano permettersi di sacrificare una persona per finalità scientifiche. Decisero allora di ricorrere a un altro animale. Sarebbe stato un agnello. Perché? L’animale conserva tratti divini, in quanto Cristo era agnello di Dio. All’epoca ragionavano così, e non è detto che noi facciamo di meglio.
E chi avrebbe ricevuto il sangue? Qualcuno che non stesse bene, era ovvio. La trasfusione avrebbe permesso di curare i suoi malanni. Serviva uno in grado di esprimersi con proprietà, per descrivere i cambiamenti nel corpo successivi alla trasfusioni. Il prescelto fu Arthur Coga, malato di mente ma conoscitore del latino. Lo pagarono 20 scellini e via. L’esperimento andò benissimo, cioè non morì.
Col tempo, però, le cose peggiorarono. Gli esperimenti divennero oggetto di pubblica derisione: Coga divenne un ubriacone non fu più preso come cavia. Sul fenomeno della trasfusione vennero messe in scena commedie e satire, e i membri della Royal Society decisero di smettere, vinti dalla vergogna. Per oltre un secolo non se ne parlò più.
Ora le cose sono molto più sviluppate, per fortuna, e il sangue di agnello non viene più trasfuso nelle vene di un essere umano. Resistono, a parte le difficoltà di rigetto di gruppi sanguigni inconciliabili, altre perplessità culturali, che rendono quei tempi molto più simili ai nostri. Negli Usa il sangue dei neri e quello dei bianchi, ad esempio, erano tenuti separati in banche diverse. E sempre negli Stati Uniti i gay non sposati non possono donare il sangue. Il motivo è evitare la diffusione del virus dell’Hiv. Ma il sospetto è che ci sia, intrinseca, una punta di omofobia. Perché in fondo la domanda che ci si poneva secoli fa – cioè cosa porta con sé il sangue, quando viene trasfuso – solleva ancora dei dubbi.