Adam Smith aveva copiato tutto dall’Islam

Adam Smith aveva copiato tutto dall’Islam

Tutti conoscono la “mano invisibile” di Adam Smith, la metafora con cui l’economista spiega come l’azione indipendente e inconsapevole dei singoli viene a determinare il benessere generale e la prosperità di tutti. Ma di chi è questa mano? Del mercato? Del capitalismo? Neanche per sogno.

Quando Smith ne parla, nella sua Teoria dei Sentimenti Morali, del 1759, lascia intravedere, con una certa chiarezza (lo dice) che la mano non appartiene a vaghe entità metaforiche, bensì a una entità ben precisa: la Provvidenza. Lo spiega qui:

They are led by an invisible hand [my emphasis—J.G.] to make nearly the same distribution of the necessaries of life, which would have been made, had the earth been divided into equal portions among all its inhabitants, and thus without intending it, without knowing it, advance the interest of the society, and afford means to the multiplication of the species. When Providence [i.e., God.— J.G.] divided the earth among a few lordly masters, it neither forgot nor abandoned those who seemed to have been left out in the partition.

La mano invisibile, insomma, è la mano di Dio. Smith lo diceva secoli prima che arrivasse Maradona a segnare contro l’Inghilterra.

Ebbene, ma di quale Dio si tratta? Scavando un poco, si scopre che più che alla Provvidenza, la mano forse apparteneva ad Allah (e Smith, come è ovvio, non lo pensava). Possibile? Possibilissimo. Non sono pochi (non sono neanche tanti, in realtà) gli studi che leggono nelle idee di Smith un’antica influenza persiana, derivante in particolare dagli scritti di Nasir ad Din Tusi, matematico, astronomo, filosofo e scienziato del XIII secolo, e di al Ghazali, anche lui scienziato e filosofo, ma vissuto un secolo prima.

Sembra che molte delle argomentazioni di Smith derivino proprio dal medioevo islamico. Ad esempio, l’idea che lo scambio sia la conseguenza della capacità dell’uomo di comunicare e di fare uso della razionalità si trova paro paro negli scritti di Din Tusi. Un caso? Può essere. I due, però, utilizzano la stessa metafora, cioè “che non si sono mai visti due cani scambiarsi gli ossi”. E questo è molto sospetto.

Da al-Ghazali, invece, Smith riprende l’idea della divisione verticale del lavoro, che diventa più vantaggioso se il processo di produzione non rimane nelle mani di una singola persona ma viene suddiviso (parcellizzato) tra più persone. È il caso della fabbrica degli spilli, celebre esempio che ha raggiunto lo status di parabola del capitalismo, ma che Smith ha copiato. Da dove? Sembra che lo abbia preso dalla voce “Epingle”, cioè “spilli”, della celebre Encyclopédie francese (voce a cura di M. Delaire), che a sua volta va a comprendere tomi e saggi delle antiche visioni persiane. Una strada mediata, lunga e tortuosa. Ma le idee viaggiano sempre così.

Può stupire questa connessione, ma non dovrebbe. Nella società islamica del medioevo il mercante era tenuto in massimo grado, più o meno come nell’Europa cristiana avveniva per il soldato. Poteva viaggiare, scambiare note di credito, accumulare ricchezze. Soprattutto, aveva un raggio d’azione molto lontano da quello dello Stato, o di ciò che ne faceva le veci, che poteva intervenire nelle sue faccende poco e malvolentieri. La separazione era netta. Tanto che anche Maometto, quando gli fu chiesto di abbassare i prezzi di alcuni beni di prima necessità disse di non poterlo fare, perché “i prezzi dipendono dalla volontà di Allah, è lui che li alza o li abbassa”. Fare il contrario è una bestemmia. Meglio ricordarsene, quando Repubblica arriverà a costare 2 euro.

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