«Abbiamo perso. Veltroni e Renzi ci hanno sacrificato sull’altare della vocazione maggioritara, dove non la critica non esiste. Ora ci è rimasta la bigiotteria swaroskyana di Sorrentino o il cinema totalmente anaerotico di Nanni Moretti, dove non si vede manco un ditalino, un orgasmo, una sega….». Fulvio Abbate, scrittore siciliano trapiantato a Roma, ultimo libro Roma Controvento (Bompiani), commenta con l’amaro in bocca la morte di Claudio Caligari, il regista di Amore Tossico e L’Odore della Notte, sconosciuto al grande pubblico e morto a 67 anni martedì 26 maggio dopo una lunga malattia. L’amaro, se così si può definire, sta tutto in un’Italia che non sa neppure chi sia Caligari, che ricorda questo lombardo di Arona sul Lago Maggiore ma trapiantato a Roma negli anni ’70 come un autore di culto, di nicchia, un outsider come tanti, peggio ancora come una meteora nel cinema italiano. Del resto Caligari di film ne ha fatti due, il terzo uscirà questa estate. Un altro, Anni Rapaci del 2005, sulla ‘Ndrangheta a Milano, non è mai stato completato. L’ultimo, Non essere cattivo, è stato il più difficile, con la malattia sempre più spietata e la difficoltà di parlare dopo un’operazione alle corde vocali negli anni passati. Alla fine ce l’ha fatta. Il Manifesto lo ha inserito, a ragione, nella «parte alta del cinema italiano».
La politica tace, le istituzioni pure. In silenzio resta la sinistra italiana, in particolare quella culturale, che dai film di Caligari avrebbe potuto imparare molto. Perché il cinema di Caligari era un cinema politico. Raccontava soprattutto il popolo e gli emarginati, storie scomode, di vita e di realtà. E lo faceva con grande ironia, feroce e dura, con un linguaggio spietato di strada. Era cronaca, era cinema, nel mito di Pier Paolo Pasolini e Martin Scorsese, evitando letture onanistiche o di estetica. Come quando raccontò i tossici di Ostia negli anni ’80, tempi in cui la morale italiana su questi temi era agli apici e gli unici che parlavano del tema erano i Radicali di Marco Pannella. Lo ha spiegato lo stesso Caligari in un’intervista a Christian Raimo per Internazionale nel novembre del 2014, parlando appunto di come veniva vista la droga in quegli anni. «Tu non hai idea di quale immagine i mezzi d’informazione davano del fenomeno della droga. La televisione ne parlava solo in termini di pentitismo. Quando con il sociologo Guido Blumir cominciammo a lavorare al materiale per Amore tossico, il drogato era raccontato come tossico lamentoso, triste, vittima. Io dicevo a Guido: non si capisce perché la gente si droga se fa così schifo. Una notte, proprio qui sotto, gli faccio: giriamo un film comico sull’eroina. Volevo mostrare il lato piacevole, divertente del consumo che era censurato. Per me era fondamentale». Ma Caligari fu anche un maestro nel raccontare la violenza nelle strade alla fine degli anni ’70, sempre a Roma, riprendendo il romanzo Le Notti di Arancia Meccanica di Dino Sacchettoni, racconto su come i ragazzi delle borgate si rifacevano assaltando i ricchi, derubandoli. Celebre la scena di Little Tony, costretto a cantare Cuore Matto durante una rapina in casa.
«Abbiamo perso, ora ci è rimasta la bigiotteria swaroskyana di Sorrentino o il cinema totalmente anaerotico di Nanni Moretti, dove non si vede manco un ditalino, un orgasmo, una sega…»
«Caligari faceva parte di quel mondo della controcultura alternativa romana degli anni ’70, del Piper, dei Mario Schifano, di Eugenio Barba» spiega Abbate. «È un mondo completamente scomparso, cancellato e rimosso. Erano gli anni della psichedelia in Santa Maria in Trastevere, di film come quelli di Alejandro Jodorowsky. Non ci è rimasto più niente. Abbiamo perso. Ora sarebbe impossibile vedere Verdone che imita o prende in giro un tossico». È una sconfitta a cui una certa sinistra italiana ha dato un contributo importante. «Siamo stati sacrificati nel nome della vocazione maggioritaria» aggiunge lo scrittore romano «nel nome della bigiotteria culturale di Walter Veltroni ora presa in eredità da Matteo Renzi. Prima c’era il poema da proloco di Tornatore, poi appunto questi finti swarosky di Sorrentino. L’opera omnia di Veltroni ci ha lasciato solo un barattolo di Nutella…».
Valerio Mastrandea, legatissimo a Caligari, l’attore che ha seguito il regista in questi ultimi mesi sul set di Non essere cattivo, in uscita al Festival di Venezia questa estate, ha ricordato così il maestro. «Noi che abbiamo avuto il privilegio di lavorarci questo lo sappiamo bene. Ogni film non fatto da Claudio, Claudio lo ha fatto eccome. Come ha fatto il suo terzo e ultimo. Con l’amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva. Con la dolcezza di chi riconosce la magia del cinema e delle persone che lo fanno. Con la stronza intelligenza di chi urlava il diritto al cinema da conoscere e da poter fare. Con un winchester immaginario sotto l’impermeabile a ricordare che Ford e Sam Peckinpah erano li con lui anche se stavamo all’idroscalo di Fiumicino anzi, soprattutto per quello. Era pieno di roba e di gente Claudio. Il suo Martino in un angolo della testa. PPP sempre a portata di citazione. I suoi “ultimi” da raccontare, facendoli volare dal basso dei sondaggi sui quotidiani , all’alto del livello drammaturgico in un copione e poi sul set. Il suo cinema è stato e sarà sempre Politico».
PPP sta per Pier Paolo Pasolini, il regista soprattutto di Accattone. L’intellettuale friulano nel suo “Quasi un testamento” – frasi e considerazioni brevi sulla cultura, sul giornalismo, la politica e la società – scriveva: «C’è solo una cosa essenziale in un buon film: il fatto che sullo schermo passi dalla realtà». E’ un mantra a cui Caligari ha dedicato la sua vita professionale. «Anche il Pasolini scandalistico è stato completamente dimenticato da questo Paese. Proprio come per Caligari» – conclude Abbate. «Del resto, basta pensare a Franco Battiato, passato da Pollution alla Cura, o ad Alan Sorrenti, da Aria a Figli delle stelle: ecco Sorrenti doveva farci capire subito come sarebbe finita».