La prima economica, la seconda politica. Una che (quasi) tutti vorrebbero evitare, l’altra invocata sottovoce. Sono la Grexit e la Brexit: i due spettri che agitano la scena politica europea.
Bruxelles attende col fiato sospeso di vedere cosa accadrà nelle prossime 24 ore. Molto di quanto succederà potrebbe, infatti, cambiare per sempre gli attuali equilibri tra le 28 capitali europee. Il risultato del voto britannico, così come l’evolversi della questione greca, rischiano in poco tempo di far avverare due dei peggiori incubi dei sostenitori di un’Europa politica unita: l’uscita della Grecia dalla zona euro entro fine anno e il materializzarsi del referendum britannico sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, fissato per il 2017.
Le borse europee, in due giorni, hanno visto azzerati gli effetti del QE
Con il fiato sospeso non sono soltanto gli analisti politici, ma anche le borse europee, che in due giorni hanno visto azzerati gli effetti del QE e assistito al ritorno delle incertezze legate al destino greco. Il rischio contagio torna a circolare sulle pagine dei giornali, anche se fonti della Commissione europea si sono affrettate ad affermare che la zona euro è ormai solida e in grado di far fronte a un (ormai) possibile default greco.
Atene, che ieri ha rimborsato al FMI 200 milioni di euro, naviga in acque non proprio calme. Mentre il Financial Times parla della richiesta di una nuova svalutazione dei crediti Ue avanzata dal Fondo Monetario ai Paesi europei come condizione necessaria per versare ad Atene la sua parte di aiuti, il Governo Tsipras non nasconde più lo stallo nei negoziati con i partner Ue. Un quadro d’insieme che rende molto difficile l’ipotesi di stringere un accordo il prossimo 11 maggio, data in cui a Bruxelles si terrà la nuova riunione tra i ministri delle finanze della zona euro. Una riunione fissata in extremis, considerato che il giorno seguente Atene è chiamata a rimborsare al FMI 760 milioni di euro. Proprio il 12 maggio è il giorno che in molti a Bruxelles hanno segnato sul calendario, come giorno zero. Data oltre la quale non soltanto l’eurozona, ma forse l’Ue stessa potrebbe non essere più la stessa.
Atene e l’Eurozona devono riuscire soprattutto a trovare un linguaggio comune in grado di aprire a un terzo piano di aiuti
In caso di mancato accordo lunedì prossimo, necessario per liberare l’ultima tranche da 7,2 miliardi di euro del piano di aiuti siglato da Papandreou, sarà altamente improbabile che Atene riuscirà a onorare il suo debito verso l’FMI. L’emergenza greca, però, non si ferma qui. Atene e l’Eurozona devono riuscire soprattutto a trovare un linguaggio comune in grado di aprire a un terzo piano di aiuti. Anche in caso di uno sblocco in extremis dei 7,2 miliardi di euro da parte dei creditori Ue la Grecia continuerebbe a navigare in acque difficili. Atene sta per entrare in una stagione di pesanti scadenze. Sono oltre 10, infatti, i miliardi di euro che il Governo Tsipras deve trovare per poter ripagare la (ex) Troika tra giugno e agosto, oltre a quelli necessari per mandare avanti il Paese.
Ma non c’è soltanto Atene tra le preoccupazioni di Bruxelles. Anche Londra rappresenta in queste ore un’incognita. La promessa fatta da Cameron agli elettori britannici nel 2013, e cioè che in caso di vittoria alle elezioni odierne organizzerà nel 2017 un referendum sulla permanenza britannica nell’Ue, avrà un impatto decisivo sul futuro dei negoziati e delle trattative a Bruxelles.
Un’uscita tout court del Regno Unito dall’Ue avrebbe effetti deleteri soprattutto per l’economia britannica
Perché se è vero, come dimostra un sondaggio di Open Europe, che a chiedere un’uscita tout court dall’Unione europea è appena il 17% dei britannici, la maggioranza chiede comunque una sua decisiva riforma. Lo scarso europeismo d’oltremanica non è mai stato un segreto, ma mai nessuno fino ad oggi aveva messo l’Ue tra i temi centrali di una campagna elettorale per le politiche. Nonostante gli ultimi sondaggi diano David Cameron in vantaggio, le incognite sul voto britannico restano. Per quanto appaia improbabile l’arrivo di Nigel Farage al numero 10 di Downing Street, l’Ukip resta la spina nel fianco di Cameron, obbligato a difendere il proprio elettorato con un’accelerazione a destra e con un inasprimento dei toni euroscettici. Toni che cambiano poco anche per Nick Clegg dei Liberal Democratici, che da leader di una forza storicamente pro europea, ha aperto alla possibilità di “far esprimere i cittadini britannici” sul Trattato di Lisbona. L’unico ad aver escluso la Brexit, per ora, è Miliband, che però ha giustificato il suo scetticismo sulla base di calcoli puramente economici. Nonostante la campagna mediatica lanciata da David Cameron nel 2013, infatti, sembrerebbe confermato da diversi economisti che un’uscita tout court del Regno Unito dall’Ue avrebbe effetti deleteri soprattutto per l’economia britannica. Open Europe parla di una perdita di Pil annua del 2,2% per un totale di oltre 300 miliardi di euro, oltre alla perdita del ruolo di mediatore speciale tra Washington e Bruxelles che passerebbe nelle mani di Berlino.
Brexit e Grexit hanno un impatto diverso su Bruxelles.Negli ultimi anni Londra ha smesso di essere tra i Paesi che contano nelle decisioni comunitarie. E questo proprio a causa della posizione assunta da Cameron, che nell’ottica di veder diminuito il controllo di Bruxelles sulla gestione interna ha di fatto condannato all’isolamento l’intero Paese. La lotta al ribasso sul bilancio europeo, cui Londra ha di fatto dedicato le sue energie in questi anni, stride con il reale contributo del Paese fermo allo 0,5% del Pil. Nella capitale europea ci si è abituati a fare senza Londra o comunque ad agire senza poter contare sul suo appoggio. Per alcuni leader e alti funzionari Ue, anzi, la Brexit comporterebbe un alleggerimento del lavoro e la velocizzazione delle decisioni. Tutt’altro discorso, quello per la Grecia. Ancora ieri il Commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici si è espresso a favore della permanenza di Atene nell’euro, posizione che l’esecutivo di Jean Claude Juncker ripete come un mantra da mesi. Forse perché la Grexit al di là dei reali rischi contagio sulle altre economie deboli dell’Unione (Italia in testa) rappresenta il vero tabù che nessuno vuole rivelare. L’apertura di una falla tra i 19 Paesi dell’Eurozona renderebbe l’insieme vulnerabile e non più credibile all’esterno. Uno scenario dalle conseguenze impossibili da prevedere.