Il dibattito sulla riforma della scuola è fermo agli anni Settanta

La scarsità delle competenze

I cortei di protesta contro la riforma della scuola del Governo Renzi, passata agli onori e oneri della cronaca con il nome di “Buona Scuola”, annunciano il netto no della parte più sindacalizzata del nostro sistema scolastico ai principi che ispirano l’intervento governativo – già di per sé piuttosto traballante, a partire dalla mancata previsione di un sistema di valutazione oggettivo e stringente per gli insegnanti precari. Per i sindacati la riforma sarebbe addirittura anticostituzionale, darebbe troppo peso specifico alle decisioni organizzative del preside, definito sceriffo per qualche arcana ragione, mentre il piano straordinario di assunzioni, che peserà finanziariamente sugli anni a venire, è definito come insufficiente e, eufemisticamente, timido. Per i sindacati le centomila assunzioni di cui tanto si parla, lascerebbero scoperti un numero altrettanto rilevante (si parla di ulteriori 115mila) di insegnanti abilitati, non si sa come, il cui diritto all’insegnamento sarebbe gravemente compresso. La discussione – come spesso accade – sembra assolutamente non tenere conto dei risultati, scandenti, della nostra scuola in particolare, ma più in generale dell’insieme di istituti – pubblici, privati e anche imprenditoriali, in tema di acquisizione e mantenimento delle competenze necessarie sul posto di lavoro.

Il sistema formale d’istruzione, nonostante alcuni progressi recenti registrati dalle inchieste internazionali quali Pisa dell’Ocse, appare, a parte poche isole felici soprattutto nel Nord-est italiano, assolutamente incapace di preparare i nostri studenti al mondo del lavoro, che – ricordiamolo – non aspetta né sindacati né governi, per mutare e richiedere competenze nuove ai lavoratori. La velocità di cambiamento nel contenuto di skill è una delle caratteristiche più marcate delle nuove occupazioni, soprattutto legate all’economia digitale. Una scuola pachidermica, e che ancora ragiona con slogan da anni Settanta, è cosciente che nel mondo nulla o quasi si produce e si organizza come eravamo abituati anche solo prima della seconda metà degli anni 2000? Pare di no, siamo fermi agli “sceriffi” – probabilmente noti solo tramite i film di Bud Spencer – mentre l’intaccabile convinzione di molti nostri insegnanti è che l’unico diritto da tutelare sia quello del loro lavoro. Verrebbe da dire che vivere su Marte per troppo tempo intacca la lucidità di analisi. Un po’ di ossigenoterapia non farebbe poi così male.

Siamo fermi agli “sceriffi” – probabilmente noti solo tramite i film di Bud Spencer – mentre l’intaccabile convinzione di molti nostri insegnanti è che l’unico diritto da tutelare sia quello del loro lavoro

Eppure, a ben guardare i dati, non è solo la scuola a essere in grave ritardo, ma anche il sistema imprenditoriale e le politiche pubbliche in tema di formazione non facilitano l’acquisizione di nuove competenze. Il grafico 1 mostra l’incidenza della formazione professionale per classe di età in alcuni Paesi europei. Come si può notare, l’Italia è in grave ritardo, in tutte le classi di età, sulla media europea e soprattutto sui Paesi del Nord Europa, i più dinamici in quanto a formazione del personale. A mero titolo esemplificativo, il grafico 2 mostra la correlazione esistente fra livelli del Pil pro-capite e incidenza media della formazione professionale. La relazione è positiva e significativa: il livello di produttività è assolutamente associato alle competenze della forza lavoro.

L’impressione che il nostro mercato del lavoro soffra di “sottinvestimento” in competenze è confermato dal grafico 3, che mostra l’uso medio di alcune competenze generiche sul posto di lavoro, così come misurate dal Programma Internazionale di valutazione delle competenze degli adulti (PIAAC)

Figura 1 Incidenza della formazione professionale per classe di età, 2012

Figura 2 Formazione professionale e PIL pro-capite, 2012

L’Italia si caratterizza per un uso sul posto di lavoro notevolmente scadente delle competenze basilari di scrittura e lettura, mentre sembra confermato lo stereotipo dell’italiano che se la cava in qualche modo: l’indice di utilizzo delle capacità di problem-solving è, infatti, superiore alla media. Eppure, a ben vedere, la definizione della variabile, che risponde alla domanda “fronteggi mai situazioni complesse in cui serva un tempo minimo di trenta minuti per decidere”, lascia il sospetto che l’indice specifico catturi anche il livello percepito di “non adeguatezza” delle proprie competenze. Se qualcuno volesse descrivere la situazione della nostra forza lavoro con un “mancano leggermente le basi”, nessuno di scandalizzerebbe, ed è in questo campo che le responsabilità del nostro sistema scolastico sono piuttosto evidenti, sebbene giochi a nostro sfavore anche la domanda non certo “skills-intensive” delle nostre piccole imprese.

Figura 3 Livello medio di competenze utilizzate sul posto di lavoro, 2012

Non sono certo da dimenticare le responsabilità indirette delle regole ingessate del nostro mercato del lavoro altamente duale. Il grafico 4 mostra le differenze di utilizzo delle competenze per tipo di contratto. Come si nota l’utilizzo di contratti precari sembra essere associato a un loro utilizzo medio ben più basso, non solo in Italia. Il nesso causale, qui solo abbozzato ma ampiamente trattato in letteratura, che spiega tale fenomeno – al netto di effetti di auto-selezione della forza lavoro con basse competenze in contratti precari – sarebbe quello per cui l’incentivo per il lavoratore a investire in formazione, e quello dell’imprenditore a fornirla – sia molto basso nel caso di manodopera assunta con contratti non stabili. Una delle motivazioni del Jobs Act era in effetti proprio quella di eliminare gli incentivi perversi che producono un feedback negativo fra precarietà e bassa produttività del lavoro. Vedremo se nel medio-periodo le nuove norme saranno efficaci.

Figura 4 Livello medio di competenze utilizzate sul posto di lavoro, 2012

Controllando perciò per la composizione del lavoro temporaneo, la relazione empirica stimata nel campione di Paesi europei, mostrata nel grafico 5 a titolo meramente esemplifictivo, rivela come un punto percentuale di maggiore incidenza della formazione professionale sia associato a un 1,9% in più di produttività del lavoro, misurata dal livello PIl pro-capite reale. Non poco, tutt’altro. Considerando che l’utilizzo dei fondi regionali e statali pubblici per la formazione professionale è il disastro che tutti conoscono, con una gestione clientelare che vede il sindacato pienamente corresponabile, ci chiediamo: i sindacati vogliono finalmente scrollarsi di dosso la giusta fama di cariatidi solo pronte a dire no? Vogliono rendersi finalmente protagonisti di un ammodernamento contrattato delle politiche pubbliche in tema di istruzione e formazione? Perché dalla fantasia etimologica del preside sceriffo – etichetta lunare se solo si risconoscssero i risultati scadenti qui presentati – all’irrilevanza politica e negoziale, a nostro modesto giudizio, il passo è molto breve.

Figura 5 Formazione professionale e PIL pro-capite, controllando per l’incidenza del lavoro precario, 2012

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