Come ogni mese dall’inizio del 2015, i dati mensili sulle attivazioni e cessazioni contrattuali delle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro hanno fatto ampiamente discutere.
La scelta del Ministero di rendere pubblici i dati con scadenza mensile potrebbe a prima vista essere considerata una scelta saggia e di trasparenza, soprattutto in un paese come l’Italia in cui i dati non abbondano di certo, e la discussione pubblica si basa spesso su “sensazioni”, per usare un eufemismo.
Innanzitutto andrebbe precisato che le differenti fonti di dati utili ad analizzare le dinamiche recenti del mercato del lavoro hanno una copertura, un’affidabilità e dei limiti ben specifici che è qui utile ricordare. I dati del Ministero si riferiscono, innanzitutto, solo a una fetta del mercato del lavoro. Sono dati amministrativi che comprendono tutte le attivazioni, cessazioni e trasformazioni di contratti avvenute e dichiarate al Ministero. La loro copertura iniziale, ovvero i dati che compaiono nelle cosiddette notizie flash, si limita al solo settore privato ad esclusione dei contratti usati nel lavoro domestico. Come si può notare, dunque, la copertura è parziale. Non esiste modo tramite tali dati di monitorare l’estensione e la dinamica del lavoro nero, fatto particolarmente importante in Italia – o del nero ci si ricorda solo quando fa comodo? – né di tutto il lavoro atipico o irregolare. Il nome “notizia flash” con cui è pubblicizzata, in questo caso specifico, piuttosto che suggerire un dato impreciso e non definitivo, serve forse a denotare l’abbaglio implicitamente preso da chi la leggesse senza le necessarie cautele.
La scelta del Ministero di rendere pubblici i dati con scadenza mensile potrebbe a prima vista essere considerata una scelta saggia e di trasparenza
La verità è abbastanza semplice: la migliore fonte di informazioni sul mercato del lavoro resta la rilevazione sulle forze di lavoro Istat, spesso presentata dagli organi di stampa, in tono semi-spregiativo – come un “sondaggio”. Capiamo bene che in un paese in cui nelle ultime quattro elezioni nessun istituto di sondaggi sia stato capace di misurare in modo preciso le intenzioni di voto, il termine sondaggio suoni come un insulto. Ma a differenza dei sondaggi di Pagnoncelli, solitamente con un campione medio di mille individui, che per gli obiettivi di un sondaggista possono anche più che bastare, essendo la precisione garantita dal campione sufficiente allo scopo, l’inchiesta Istat è somministrata all’incirca a 250 mila famiglie l’anno, per una copertura di 600 mila individui, secondo uno schema che prevede un “panel a rotazione”, per cui le famiglie sono intervistate per due trimestri consecutivi, per poi stare in quiescenza per altri due, ed essere di nuovo intervistati per due trimestri prima di uscire definitivamente dal campione.
La struttura a rotazione permette perciò di calcolare statistiche di flusso fino a un anno e mezzo di distanza, ovvero il numero stimato di persone che cambiano di stato nel mercato del lavoro, per esempio coloro che da occupati diventano disoccupati o che da un contratto precario passano a uno stabile, come tra le altre cose fa dal 2014 l’Istituto Statistico Spagnolo INE, che rende pubblici tutti i dati di flusso in un pagina web dedicata. Queste statistiche sono state utilizzate da FEDEA, la “fabbrica di idee economiche spagnola”, per monitorare le dinamiche di stato e contrattuali in un osservatorio del lavoro specifico interessantissimo. Perché non fare lo stesso da noi? Semplice, perché i dati non vengono né prodotti né pubblicati da Istat.
La verità è abbastanza semplice: la migliore fonte di informazioni sul mercato del lavoro resta la rilevazione sulle forze di lavoro Istat, spesso presentata dagli organi di stampa, in tono semi-spregiativo – come un “sondaggio”
È facile notare che tali dati sono complementari e più comprensivi di quelli del Ministero del Lavoro. Perché non prevedere una cosa simile per l’Italia, coordinare definitivamente tutti i dati economici sul mercato del lavoro, in modo da presentare una situazione chiara e scevra da tentazioni manipolatorie? La risposta giace in una constatazione piuttosto amara. Purtroppo, come sempre nel nostro paese, esiste un forte pregiudizio anti scientifico, anti numero, anti dato fattuale. Il derubricare l’inchiesta Istat a sondaggio fa parte di tale tentativo. Va respinto, assolutamente, al mittente! Bene ha fatto il Presidente Inps Boeri ricordare che l’inchiesta Istat è irrinunciabile ed la fonte principale per analizzare le dinamiche di fondo del mercato del lavoro. Ci saremmo aspettati lo stesso dal Ministro Giuliano Poletti, ma capiamo anche che probabilmente non si senta a suo agio in un campo non suo. Ciò che è irrinunciabile è dare, finalmente, una migliore struttura ai comunicati stampa, omogenizzare le fonti, evitare che il dato sia come sempre un abbellimento di fronte all’opinione pubblica, trattata – come sempre – come un gruppo minus habens. Vogliamo valutare gli effetti del Jobs Act, nel modo il più neutrale e scientifico possibile? Bene usiamo gli strumenti statistici esistenti al meglio. Produciamo più statistiche usando le fonti che già ci sono.
Chiedere a gran voce di produrre e pubblicare i dati Istat sulle transizioni contrattuali è una richiesta di civiltà statistica che tutte le persone che hanno a cuore l’indipendenza delle comunicazioni pubbliche, in fatto di dati economici, dovrebbero sottoscrivere. In mancanza di ciò, continueremo a trattare i dati mensili comunicati dal Ministero del Lavoro come un tentativo maldestro di spargere fumo.